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venerdì 31 dicembre 2010

Saluto al 2010.

Un altro anno è passato, migliaia di ricordi che vanno ad aggiungersi all’album della vita.
 
Una sciata il primo dell’anno, tre amici, ampi pendii intonsi di polvere.
Le prime esperienze come aiuto-istruttore di scialpinismo.
Una bufera di neve a metà febbraio.
Ed altre due spettacolari nevicate marzoline.
Una notturna a Punta Sourela.
Una mattinata rubata al lavoro per godersi in totale solitudine l’ultimo Soglio dell’anno con la neve primaverile.
Il vento bestiale di quella domenica in alta val Pellice.
I pendii lisci come biliardi del Barrouard.
La prima curva nel canale della Becca di Gay.
L’orrenda neve del Piantonetto.
Innumerevoli buchi nell’acqua, nella neve brutta e nelle nuvole di un anno col tempo dispettoso.
Una sciata imperiale alla Rognosa del Sestriere.
Due cari amici diventati genitori.
I tredici laghi in una giornata nebbiosa.
Le arrampicate serali a Montestrutto, Voira, Ponte del Diavolo.
I miei primi 6a.
Feste di paese, mangiate, l’Orgoglio Alpino in Val Varaita.
La gioia di qualcuno sul suo primo tremila.
La crisi “vocazionale” per l’alta montagna.
Il ritorno alle alte quote nella valle più amata.
La diga del Vajont, le stradine di Erto, Mauro Corona.
La gentilezza dei bosniaci.
Il ponte di Mostar e la verde acqua della Neretva.
I segni della guerra ancora presenti nell’area balcanica.
Le ragazze di Sarajevo.
La fusione di culture e religioni in pace.
Una città che rinasce.
Le strade della Bosnia-Erzegovina.
La cucina dell’est.
Il mare della Croazia.
La roccia di Paklenica.
I calamari grigliati accompagnati dalla Malvasja di fronte al mare.
Il profumo del sale, il suono delle onde.
La grotta di Manita Pèc. Il caldo atroce dell’agosto balcanico.
L’organo Marino di Zara.
Quel tramonto dal molo, con la mente che spingeva ad ovest.
Il ritorno a casa.
Francesca, la mia nipotina.
Il ritorno a quota 4000.
L’alba sull’Hohlaubgletscher, quel passaggio di III°, l’arrivo con la pelle d’oca in vetta all’Allalinhorn.
La fine della “crisi”.
Un bivacco, due amici , la campana in vetta all’Uja di Mondrone e quella cresta sognata da anni.
Una stella senza cielo.
Un pomeriggio di fine estate, due mani che si incrociano.
Due fratelli di papà saliti in Cielo a fargli compagnia.
L’ultima alpinistica della stagione su una Basei deserta ed in veste invernale.
I mari di nubi dell’autunno.
Le gite con cari amici tra i larici dorati e le prime nevi.
Quattro giorni tra i colori autunnali in Provenza con una persona speciale.
Il mare della Camargue.
La Paella.
Le vigne del Luberon.
Il Mistral.
Gli occhietti sorridenti.
La gioia di essere zio.
Gli sci a cui levare la polvere.
La ruggine da togliere alle gambe.
Mattoncino su mattoncino.
Una strada da percorrere assieme.
La neve effimera di inizio inverno.
La pioggia di Natale.
La neve di Santo Stefano.
La poudreuse della Pala Rusà e del Lion
Una persona da curare
Gli ultimi giorni dell’anno, “qualcosa” da costruire.
 
….ed un sorriso per l’anno nuovo che sta per cominciare, tenendo la vita per mano.




lunedì 13 dicembre 2010

Sarajevo mon amour

Reduce dal mio viaggio attraverso parte della ex-Jugoslavia nell’agosto scorso, ho cercato di approfondire le vicende storiche delle guerre che hanno martoriato le regioni balcaniche negli anni novanta.
 
Tra i libri che mi sono procurato c’era anche questo, che ho appena terminato di leggere. E’una lunga intervista a Jovan Divjak, il generale di origini serbe che difese la “sua” Sarajevo dall’aggressione dei serbo-bosniaci di Karadzic e Mladic.. serbo che combatte contro i serbi, il libro-intervista è interessante per capire cosa significò vivere a Sarajevo durante gli anni dell’assedio, per capire su quali basi diplomatiche, forse ancora troppo fragili, si regge la Bosnia-Herzegovina di oggi, per comprendere quanto è ancora lungo il cammino per una “normalità” in quella regione.
 


Dal sito dell’editore (infinito edizioni) riporto:

«Vivo da 40 anni nello stesso quartiere, a Sarajevo, a due passi da un’antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario cattolico. Prima della guerra, quest’armonia, nata dalla differenza, si ritrovava nella vita d’ogni giorno… Sarajevo m’ha aperto gli occhi. Ero stupito nel vedere una città così ricca di grandi qualità umane, soprattutto la tolleranza e la generosità».

La guerra, le figure fosche di Milosevic, Karadzic e Mladic, ma anche le contraddizioni e i voltafaccia della componente musulmana durante la guerra e i nazionalismi sorti dalla devastazione bellica sono rivelati e spiegati in un libro carico di pathos destinato a finire tra i grandi volumi di storia.

In questo libro, il militare serbo che difese Sarajevo, che ha “adottato” un nipote musulmano (foto di copertina) e ha fondato la più grande associazione nazionale per aiutare gli orfani di guerra, racconta le bombe, le tribolazioni dei civili, i doppi giochi dei politici bosniaci e della comunità internazionale, la miseria e il desiderio di una pace che in Bosnia non è ancora davvero arrivata.


«Che vuoi che ti dica, compagno Divjak. L’unica cosa che ci resta è l’amore per questa straordinaria terra e per questa città unica al mondo che tu hai difeso con onore e che continui a onorare occupandoti degli orfani di guerra. Posso dirti che ti ringrazio per quello che hai fatto e che fai, ignorando i briganti oggi al potere. Dirti che amo ancora quel luogo come se l’avessi lasciato ieri. Ci torno, e il tempo è come se non fosse passato. Per me è tutto come allora, quando vidi Sarajevo la prima volta sotto la Luna, sotto le ultime nevi dell’Igman»(dall’introduzione di Paolo Rumiz).

Sarajevo, mon amour vi farà commuovere e vi affascinerà, come solo i grandi libri sanno fare.

mercoledì 8 dicembre 2010

8 dicembre 1980 - 8 dicembre 2010







lunedì 29 novembre 2010



L'ultima rosa dell'anno sotto la prima neve dell'inverno.

28 novembre 2010

sabato 20 novembre 2010

Autunno in Provenza.


Era da quest’estate che mi girava per la testa l’idea di andare a vedere come fosse l’autunno in Provenza..in molti ci hanno detto “ma cosa andate a fare in questa stagione là.. c’è solo nebbia..non c’è nessuno..è tutto chiuso..fa freddo..piove sempre...” Col senno di poi, invece, sono soddisfattissimo perché ho trovato quel che cercavo, cioè degli splendidi paesaggi e dei colori spettacolari.
 
Così, dopo mesi di vicissitudini varie, l’idea del viaggio prende forma, e finalmente, anche se con un certo timore per il maltempo in arrivo, ma fiducioso nelle previsioni da lunedì in avanti, con un’ottima compagna di viaggio, si parte.
 
Domenica 31 ottobre.
 
Il viaggio di andata, via Sestriere e Monginevro ci porta a vedere la prima neve, scendendo sul versante francese il tempo è grigio e a tratti piovoso, ma ciò non toglie al paesaggio gli splendidi colori che l’autunno sa dare.
 
La strada che percorriamo è quella solita.. Briançon, il lago di Serre Ponçon, Sisteron, Apt, Cavaillon.. il previsto maltempo infernale (Meteofrance dava l’allerta arancio) ci lascia abbastanza in pace, e a parte qualche km sotto violenti rovesci, non prendiamo nemmeno tanta pioggia. Ad Apt assistiamo ad uno stormo, anzi due, di uccellini che compiono evoluzioni stranissime.. immagino che sia un raduno per la migrazione, è molto suggestivo, con la musica di sottofondo che ci accompagna (Pink Floyd).
 
Le strade coi platani, caratteristiche di questo angolo di Provenza, sembrano ancora più strette, con la pioggia ed il buio.. ma alla fine arriviamo a destinazione a Fontvieille. L’albergo, un Best Western, è “desolatamente” vuoto.. siamo gli unici ospiti! Ciò un po’ mi stupisce, perché seppur è vero che siamo fuori stagione, è pur sempre il ponte di Ognissanti.
 
Ceniamo in uno dei pochi ristorantini del paese, molto caratteristico, con un menù camarguese che prevede un ottimo spezzatino di toro..vin du pays..un buon modo per “ambientarci”!
 
L’indomani, in base al tempo, decideremo cosa visitare.
 
Lunedi 1 ° novembre
 
Dopo una notte che manco in estate (30° in camera.. mai dormito a queste temperature folli, nemmeno ad agosto), il cielo è nuvoloso ma non piove. Dopo un’abbondantissima colazione (10 euri… ma si può mangiare l’impossibile), partiamo in direzione di Arles. Al contrario dell’ultima volta che ci sono stato, questa visita mi lascia perplesso. Pochissimi turisti in giro (e questo è un bene..), ma atmosfera piuttosto deprimente, e soprattutto città molto sporca. Si mette pure a piovere, l’arena è chiusa e quindi la vediamo solo dall’esterno. Giriamo comunque tra i caratteristici vicoli, e poi visitiamo la cattedrale di St. Trophime. La visita di Arles, visto anche il tempo, la concludiamo prima del previsto. Decidiamo di andare al Pont du Gard. Lungo il tragitto visitiamo Tarascona, sulle rive di un Rodano dalle acque marroni a causa delle piogge di questi giorni.
 
Percorrendo poi una bella strada tra le dighe e le chiuse del Rodano, arriviamo quindi al Pont du Gard. Con mio sommo disappunto scopro che, nonostante la bassa stagione, il parcheggio si paga, e pure a prezzo pieno (oserei dire folle.. 15 eur/giorno). Va beh, siamo qui.. e se non altro non piove.
 
Si alza un po’ di vento, le foglie arancioni dei platani svolazzano per l’aria. Il Gardon è limaccioso e contrasta con le pietre chiare del ponte dell’acquedotto, che è sempre un gran bello spettacolo da vedere. Saliamo fino al belvedere dove pranziamo, qui qualche turista in più c’è, ma si è ben lontani, per fortuna, dalle folle che si possono trovare nei mesi estivi. E’ un paesaggio che ho già visto un paio di volte, ma sono felice di poterlo far vedere a chi non c’è mai stato e sognava da tempo di vedere questi panorami provenzali. I colori di questa stagione fanno il resto.
 
Ripartiamo nel primo pomeriggio dal Pont du Gard, vagando un po’ “a zonzo” per le stradine provenzali, e capitando quasi per caso nel grazioso borgo di Barbentane. Merita una visita, è il caratteristico paesello provenzale su un cocuzzolo con strette viuzze e vicoli, e case in pietra. La chiesa in alto ed il castello… e pure un mulino a vento. Sulla nostra strada incontriamo poi l’abbazia di Frigolet, e quindi ci riportiamo a Fontvieille, dove una visita è d’obbligo al Mulino di Daudet, emblema del paese.
 
Domani sarà il giorno della Camargue, le previsioni sono buone, e quindi speriamo di avere una bella giornata.
 
Martedi 2 novembre
 
Nella notte si alza un forte vento… il “famigerato” Mistral che soprattutto nei mesi autunnali ed invernali spazza la Provenza con raffiche violente, un po’ come il nostro föhn… è lui che pulisce il cielo, che, al primo mattino, non è ancora del tutto sereno.
 
Da Fontvieille quindi ci dirigiamo verso Aigues Mortes. La Camargue è bellissima anche coi colori autunnali, cavalli e tori contornano il paesaggio, con le risaie nelle quali è in corso la mietitura.
 
Le cabanes dei vari maneggi sono in gran parte chiuse..c’è anche poco traffico. Ad Aigues Mortes, la città medievale dalla quale partirono alcune delle Crociate, c’è qualche turista. Visitiamo la parte dentro le mura, la bella e calda chiesa parrocchiale, le viuzze caratteristiche, con foglie arancioni che svolazzano, gatti che entrano ed escono dai negozi elemosinando cibo. Aigues Mortes è piccola e si visita in fretta, ripartiamo quindi alla volta della capitale della Camargue, Les Saintes Maries de la Mer (da noi italiani detta famigliarmente Santa Maria..).
 
Per raggiungerla, da Pioch Badèt, prendiamo la consueta e meno trafficata Route de Cacharel.. anche perché siamo in cerca di…………….fenicotteri rosa! Les flamànts rosè… che troviamo ! Non ero sicuro che fossero ancora presenti in questa stagione, invece eccoli lì in siesta negli stagni.
 
Sono sempre belli da vedere… raggiungiamo quindi Santa Maria, e vista l’ora andiamo subito in cerca di un posto dove mangiare.. precisamente dove mangiare la Paella.. che, ovviamente, troviamo! Com’è carina Santa Maria senza il caos del turismo estivo, è più a misura d’uomo. In rue Mistral (oggi il nome è molto adeguato…) troviamo il ristorantino che fa al caso nostro, con la paellera fumante ed invitante.. la accompagnamo con un Vin des Sables fresco al punto giusto… che goduria, era più di un anno che sognavo di nuovo un piattone di paella come questo!
 
Nel ristorante appare un micino che gira tra i tavoli, è anche interessato alla paellera.. poi si allontana visto che nessuno gli da niente.. povero!
 
Dopo pranzo giriamo per le viuzze ed i vicoli di Santa Maria… e, finalmente arriviamo sulla spiaggia.. il mistral spinge sempre grosse onde sulla battigia, l’acqua è fredda, ma non posso esimermi dal toccare il mare.. un paio di volte l’anno ne sento decisamente il bisogno. Nonostante il vento, decidiamo poi di salire sul tetto della chiesa-fortezza, l’edificio più alto del circondario, per vedere il panorama.
 
Una stretta scaletta, e siamo sul tetto della costruzione.. le raffiche sono notevoli, ma il cielo azzurrissimo ed il panorama sulla Camargue ripagano tutto. A metà pomeriggio lasciamo Santa Maria, prendendo la direzione delle Saline de Giraud. Passiamo dall’Etàng des Vaccares, lo stagno salato più grande della Francia del Sud, per le stradine semi-deserte spazzate dal vento. Arriviamo alle saline giusto in tempo per assistere al tramonto. Quasi correndo raggiungiamo il terrapieno, il Mistral è violentissimo e gelido, ma non ci impedisce di assistere ad uno splendido tramonto sul mare e sulle saline. Siamo solo noi due ad osservare, intirizziti dal freddo, lo spettacolo del sole che si inabissa sulla linea dell’orizzonte.
 
Un ultimo sforzo e raggiungiamo la famosa spiaggia di Plemainson.. deserta ovviamente, e invasa quasi completamente dal mare. Scendo per fare qualche foto al tramonto, il Mistral spazza tutto e mi sposta, infatti il risultato non è dei migliori. Però è bello essere qui… a sentire sulla pelle la forza della natura. Si fa buio, è ora di rientrare a Santa Maria, dove tra le viuzze, in un altro ristorantino caratteristico, ceneremo con una quantità di moules & frites da fare impallidire un bel po’ di gente (abbiamo stimato oltre 1kg a testa…solo di cozze…), prima di rientrare, satolli e un po’ maliconici per l’ultima sera, in hotel a Fontvieille.
 
 
Mercoledi 3 novembre
 
Ultima abbondante colazione a Fontvieille, spesa di biscotti e vino e siamo pronti per (sigh) ritornare a casa. Prima tappa a Les Baux de Provence, uno dei borghi più belli dell’intera Provenza, costruito su una rocca nel cuore delle Alpilles. Anche qui clima tranquillo senza le orde fameliche di turisti. C’è ancora il Mistral, ed essendo in alto, spazzola per bene anche qui. Passeggiamo tra le vie mentre nella mia testa canticchio mentalmente “il signore di Baux” di Branduardi.
 
Lasciata Les Baux, attraverso splendide stradine dipartimentali tra le Alpilles, costellate di rocce calcaree, uliveti e vigne dai colori splendidi, raggiungiamo la chiesettina di St. Sixte, vicino ad Eygalieres, sosta “obbligata” quando passo da quelle parti.. c’è più verde delle altre volte che l’ho vista, e i prati verdi contrastano con le foglie gialle ed arancioni degli alberi e delle vigne. Che meraviglia.
 
Proseguiamo quindi per Isle sur La Sorgue, altro splendido paese provenzale, caratterizzato dalla rete di canali dall’acqua color smeraldo, e dai numerosi mulini ad acqua. Visitiamo il borgo vecchio, con negozi caratteristici (che vendono lavanda, sapone di marsiglia, prodotti tipici), ed anche con “francesi” tipici con le baguettes sotto braccio.. la vera essenza della Francia la si vede in questi piccoli villaggi. Siamo vicini a Fontaine de Vaucluse, e tra colori ancora splendidamente autunnali la raggiungiamo. Parcheggiata l’auto, ci dirigiamo a piedi verso la fonte che origina la Sorgue.
 
C’è una quantità d’acqua impressionante, sembra un torrente alpino in piena nel periodo della fusione delle nevi. Il frastuono è notevole, tra le rapide l’acqua spumeggia e si rivolta, correndo velocemente verso valle. Ed ecco la sorgente, una pozza di acqua color verde smeraldo, ai piedi di un’immensa falesia alta un paio di centinaio di metri. E’ questa la fonte del Petrarca, le “chiare et fresche et dolci acque” della Sorgue, che sgorgano da una sorgente sotterranea a parecchie decine di metri cubi al secondo.
 
Il posto è pittoresco ed inquietante allo stesso tempo. Mangiamo un boccone qui, poi riprendiamo la strada verso Roussillon. Sono le 3 del pomeriggio, valutiamo che a quest’ora, col sole basso, il sentiero delle ocre rischia di essere in ombra, quindi optiamo per un giro tra le viuzze del paese, tra le sue case dai colori di tutte le tonalità del rosso, del giallo e dell’arancione, resi ancora più saturi dall’autunno che le circonda. Dal belvedere in cima al paese, la vista su tutta la Provenza, fino al mitico e lontano Mont Ventoux è qualcosa di unico. Sono soprattutto i contrasti ad essere spettacolari. Le vigne di tutti i colori, dal rosso cupo al giallo, i pioppi cipressini, i pini, gli olivi, il bianco calcare delle Alpilles, le case provenzali. E’ tutto davanti ai nostri occhi, col sole di un pomeriggio di metà novembre che accentua le mille tonalità cromatiche.
 
Ci piange quasi il cuore a lasciare questo posto.. perché significa lasciare la Provenza per tornare a casa. Sono le 16 quando ripartiamo, con non poca malinconia.
 
Ci affidiamo al “tom tom”, e facciamo male.. o bene, chi lo sa. Fatto sta che ci porta a percorrere delle stradine assurde, quando era così semplice tornare indietro di pochi km per riprendere la conosciuta D4096, ma forse abbiamo tanti pensieri per la testa e manco ci passa per la mente di consultare la cartina…
 
Quasi ci perdiamo tra i colori dell’autunno provenzale, tra le vigne, falesie spettacolari (quella di Lioux in particolare), percorrendo strade dipartimentali sempre più strette, che salgono e scendono per le montagne del Luberon. Attraversiamo boschi multicolore, uliveti, frutteti, pinete. Percorriamo gole simili a quelle del Verdon, piccoli paesini abbarbicati sui cocuzzoli. Strade coi segni del tour de France. Ci rendiamo conto che non sappiamo che strada stiamo facendo per arrivare a Sisteron…
 
Il sole intanto accarezza coi suoi ultimi raggi il caleidoscopio di colori dei boschi e di queste vallette. Nei pressi di Simiane la Rotonde prendiamo la decisione, forse un po’ tardiva, di ammutinarci al “tom tom”. Prendo definitivamente la direzione per Forcalquier. Ma un altro problema sorge.. siamo entrati in riserva…non mi perdo d’animo. Mancano 24 km. La mia compagna di viaggio, proprietaria della macchina, mi dice che dovremmo farcela…”dovremmo??”
 
E’ quasi buio, siamo a 250 km da casa, circa 5 ore di viaggio, su una sperduta stradina dipartimentale della Vaucluse, ed abbiamo quasi finito la benzina. Potrebbe essere peggio! Potrebbe piovere!
 
Con questa battuta sdrammatizzo il momento di leggera tensione (rimanere senza benzina qui, in effetti, non so quanto sarebbe stato divertente) anche se in fondo forse ci piacerebbe essere costretti ad un giorno in più da queste parti… raggiungiamo infine Forcalquier, e quindi la salvezza!
 
Con l’animo più sereno riprendiamo il viaggio, il lungo viaggio di rientro, al buio. Abbiamo tanti km ancora, li percorriamo però senza ulteriori intoppi, e senza altre soste. Il “tom tom” ormai impazzito a Sisteron ci dice di invertire la marcia.
 
Ma forse non è impazzito.. forse interpreta i nostri pensieri più o meno inconsci, che vorrebbero farci rimanere in Provenza. Tallard, Gap, Embrun.
 
Riecco il lago di Serre Ponçon, riecco Briançon, il Monginevro. Scendiamo a Cesana e risaliamo al Sestriere, dove resiste ancora un po’ di neve. Scendo per farmi dare il cambio alla guida, non resisto e tocco la neve gelata. Ridiscendiamo per la val Chisone, Pragelato, Villaretto, Villar Perosa. Ci siamo.. il viaggio è concluso. Una cena veloce, un abbraccio coi ricordi che già si mescolano negli occhi di entrambi.
 
..ancora un’ora di auto per me, varco la porta di casa a mezzanotte e mezza, stanco, ma felice.
 
Alla fine del viaggio ho negli occhi e nella mente fotogrammi, sapori, profumi, colori di quattro giorni in quella splendida terra che è la Provenza. Una terra alla quale sono sempre più legato, che ho potuto far conoscere ad una persona che meritava di vederla, che meritava di vivere coi propri occhi e sulla propria pelle tutto questo. Una terra che, nella stagione in cui cadono le foglie, scende la pioggia, il sole regala gli ultimi piacevoli tepori e soffia il primo Mistral, ha saputo regalarci panorami, scorci, momenti, paesaggi dal sapore splendidamente e malinconicamente autunnale.
 
“Merci beaucoup Provence..et au revoir”


Foto:


http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/provenza2010.htm

domenica 7 novembre 2010

Toujours Provence

"Dopo tutto, però, eravamo in Provenza. C'eravamo stati più volte da turisti, insoddisfatti della nostra razione annuale di due o tre settimane di caldo e di luce brillante. Ogni volta, andandocene con il naso spellato e con molto rimpianto, ci ripromettevamo, prima o poi, di venire a vivere qui. Ne avevamo discorso durante inverni lunghi e grigi, o verdi e umide estati, riguardando con un sospiro di nostalgia le foto dei mercatini di paese o dei vigneti, sognando di essere svegliati da un sole abbagliante attraverso i vetri delle finestre della camera da letto. E ora, quasi con nostra sorpresa, c'eravamo buttati nell'impresa, avevamo comprato una casa, preso lezioni di francese, detto addio agli amici, avevamo imbarcato i nostri due cani ed eravamo diventati due stranieri."

Peter Mayle, Un anno in Provenza





Autunno nei pressi di Lioux, Vaucluse

giovedì 28 ottobre 2010

Tra i mille colori dell'autunno, Aiguille Rouge 2545 m, val Clarèe (FR)


I lunghi singhiozzi dei violini d'autunno feriscono il mio cuore d'un monotono languore.
(Paul Verlaine)

E’ il tempo dell’autunno, delle lunghe passeggiate tra i lariceti dorati, tra i laghetti col primo ghiaccio, i pendii bruciati dal gelo e infarinati dalla prima neve.

A volte si cerca fortuna meteorologica oltre confine, e la si trova. Sabato 23 ottobre siamo in 5 a varcare la frontiera del Monginevro, diretti nella val Clarèe, una delle valli dall’aspetto dolomitico/carsico delle Alpi Occidentali. La scelta della gita cade sul col di Thures, aperto sulla Valle Stretta, orograficamente appartenente all’Italia, ma passata alla Francia dopo la IIa guerra mondiale.

A Sallè, prima di Nevache, prendiamo una stradicciola sterrata che conduce nel vallone del Thures, parcheggiando a circa 1650 m. Siamo nel territorio della Foresta demaniale della Clarèe. L’autunno sfodera qui il suo lato migliore con il caleidoscopio di colori. Ci incamminiamo per la strada sterrata, che abbandoniamo poi per la mulattiera che sale al colle, passando attraverso un bel bosco di pini e larici dorati, con caratteristiche guglie detritiche (come la slanciata Demoiselle). Arriviamo così all’inizio dello splendido altopiano che conduce al Col di Thures, nei pressi di una dolina perfetta.

I calanchi, le doline, le rocce calcaree sono caratteristiche dei queste valli dagli aspetti carsici, piuttosto rari nelle Alpi Occidentali. Vista l’ora ed il tempo che è migliore del previsto, decidiamo di salire alla Guglia Rossa, (Aiguille Rouge). Un bel sentiero, invitante, si innalza a mezzacosta in direzione della cima. Lo risaliamo, su ghiaia cedevole, fino ad intercettare il GR 57, che piega in direzione sud fino a portarsi sulla cresta della montagna.

Risaliamo così la cresta sud, con percorso molto panoramico, fino ad un colletto, dal quale, con qualche risvolta, raggiungiamo la vetta a 2545 m. Il panorama è ampio, sulle montagne del Delfinato dai colori autunnali, verso i colossi del Pelvoux, della Meje, della Barre des Ecrins. Il clima è gradevole, si sta bene, i colori autunnali riscaldano l’animo, e qualche pensiero corre verso valle, trasportato dal vento dell’ovest.

Il tempo passa in fretta, tra un pezzo di formaggio stagionato ed un sorso di vino, e tante chiacchiere tra amici, e viene ora di scendere. Dalla vetta ho visto un sentierino abbastanza marcato sulla parte inferiore della cresta nord, e decidiamo di effettuare la traversata. Scendiamo per l’itinerario di andata per un centinaio di metri, poi, al di sotto dei salti rocciosi, intercettiamo un sentiero “da capre” ma molto ben segnato, che taglia il versante ovest della montagna, portandosi sulla cresta nord.

Il percorso è molto suggestivo, tra caratteristiche guglie rocciose, l’aspetto della montagna è un misto tra le dolomiti e le montagne della Turchia o dell’Afghanistan (viste solo in foto, naturalmente..), i colori autunnali dei pascoli bruciati dal gelo e dei larici, fanno il resto.

Il lato est della cresta precipita in canyon detritici, oscuri e tetri, ma di mille colori, dal grigio, al bianco, al giallo, al rosso a seconda dei minerali che si ossidano al contatto con l’aria, che affondano nella valle Stretta, il cui lato opposto parte con immensi ghiaioni che terminano alla base di guglie rocciose che ricordano le Tofane. Paesaggi dell’est riportati all’ovest. Qualche camoscio, là in basso su un fazzoletto di pascolo sospeso sulla valle, ci guarda incuriosito.

In perfetta solitudine (solo noi 5 abbiamo percorso questa traversata) continuiamo la discesa per la cresta nord, fino all’altezza del colle di Thures, che raggiungiamo scendendo per ampi pascoli. Nei pressi del colle c’è il Lac Chavillon, ormai quasi completamente gelato, al bordo dell’altopiano e vicino al bosco di larici dorati dall’autunno.

Che pace, che meraviglia di posto. Il sole ritorna, dopo essersi nascosto dietro le nubi, ed inonda di luce questo luogo magico. Capisco quanto adoro l’autunno tra i monti, è la stagione che preferisco per i colori e per i silenzi che tornano a popolare le montagne.

Ripartiamo, percorrendo tutto questo splendido altopiano di pascoli, silenzioso e malinconico, fino a raggiungere l’Alpage des Thures, ormai “abbandonato” al termine della stagione, situato sul bordo in disfacimento dell’altopiano… immensi calanchi, infatti, precipitano verso il vallone che abbiamo percorso in salita. Il destino di questo altopiano sarà quello di franare pian piano verso valle.. ma ci vorranno ancora migliaia di anni, per questo.

Ci re immergiamo nel lariceto, tra le ultime fiammate di sole, scendendo presto nell’ombra e nel fresco del vallone, raggiungendo l’auto dopo le 17.

Ritorneremo a casa passando dal colle della Scala e scendendo a Bardonecchia, giusto per accorciare il rientro.

Foto su: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/aiguille_rouge.htm

mercoledì 13 ottobre 2010

13 ottobre 2000



sono già passati dieci anni.

Realizzai un reportage sul disastro, ancora on line sul mio sito:

www.roby4061.it/2005/alluvione2000/alluvione2000.htm

Riporto le righe che scrissi allora, finita l'emergenza..

QUALCHE RIFLESSIONE SULL'ALLUVIONE DEL 13-16 OTTOBRE 2000

Forse questa sarà l'ultima volta, forse invece ce ne saranno sempre di più..Certo è che quest'alluvione non la dimenticherò tanto presto, certe immagini mi rimarranno impresse nella mente per sempre.

Sono scene degne di un'apocalisse quelle che si presentano a chi percorra queste valli devastate, ferite, calpestate da una forza immane, spaventosa, mai vista.

Mi ricorderò il caldo insolito e il forte vento da sud nel mattino di sabato 14 ottobre, lo spaventoso rumore della Stura, che aveva già cominciato la sua opera di distruzione.
Mi ricorderò le vie di Balangero invase dall' acqua limacciosa, i campi attorno al Banna completamente allagati, la montagna che si muoveva e rilasciava centinaia di piccole frane..
Mi ricorderò le notizie su internet che lanciavano segnali di catastrofi nelle valli dell'Orco e d'Aosta, mentre la pioggia continuava a cadere incessante e fino ai 3000mt, sciogliendo tutta la neve della settimana precedente.

Porterò con me le immagini di una valle Orco innevata, in un dolce aspetto invernale , pronta ad essere cullata nell'inverno, inconsapevole di quello che stava per accadere.

Ricorderò di aver percorso per l'ultima volta quella valle il 7 ottobre, perché ora non esiste più. Ecco, non potrò dimenticare che questo disastro ha colpito valli che conoscevo, a cui ero legato, di cui ricordo ancora scorci suggestivi che adesso non ci sono più, cancellati, spazzati via da metri di ghiaia, fango, acqua..

Ricorderò le sirene dei mezzi di soccorso tra il forte rumore del torrente e la pioggia che cadeva senza sosta..
Ricorderò le fiamme che avvolgevano il ponte di Robassomero
Ricorderò il ponte di Villanova aggredito da un torrente impetuoso, impazzito, che cercava di riprendersi con forza quello che era suo cinquant'anni prima.
Ricorderò che dopo quattro giorni passati come volontario di Protezione Civile avevo perso la cognizione del tempo, mi sentivo stanco, ma orgoglioso di far parte di tutti quei volontari che a diverso titolo erano impegnati fuori casa...

Mi ricorderò i giorni dopo, quando l'acqua scendeva e i torrenti ritornavano nei loro letti ormai modificati, la geografia delle valli stravolta.
Mi ricorderò della sensazione provata il lunedì, quando attraversando il martoriato ponte dell'acquedotto a Lanzo, sopra un torrente ancora gonfio, venivo investito da un'aria gelida carica di pioggia, che ti sferzava la faccia e pensavo se questo disastro avrebbe mai avuto fine…

Ma oltre a tutto questo non dimenticherò l'attimo in cui i primi raggi di sole, dopo giorni di pioggia e distruzione, tornavano a illuminare una terra desolata, martoriata e ferita, valli che non esistono praticamente più: mi ricorderò di quel sole che tornava a dare speranza, a scaldare queste valli in ginocchio ma pronte a risorgere, con il forte spirito della gente pronta a ricominciare, ad aiutare queste montagne a tornare a vivere…


Torino, 23-10-2000

domenica 26 settembre 2010


E' assurdo come, a volte, il destino si accanisca sulla stessa famiglia. Perdere due zii, entrambi fratelli di mio papà, nel giro di una settimana è un colpo duro, una cosa che accetto ma francamente mi è difficile capire. Ma forse non c'è niente da capire, così è la vita. Penso solo che ora anche lo zio Adriano è lassù con papà. Buon "viaggio"...

venerdì 24 settembre 2010

Uja di Mondrone 2964 m, cresta dell'Ometto (AD)


Da qualche anno avevo in mente questa cresta (difficoltà AD), e da ben 14, da quando ho cominciato ad andare in montagna, volevo salire l'Uja di Mondrone, per noi "locals" semplicemente l'Uja. E’ detta il “Cervino delle valli di Lanzo”, per come appare dalla pianura, piramide isolata e aguzza e ben distinta.

E così, visto il tempo buono, con Elisabetta e Romano, i miei primi soci di gite, si decide di andare il week-end del 11 e 12 settembre.

Partiamo nel tardo pomeriggio di sabato da Molera 1478 m, in meno di due ore di buon sentiero siamo al bivacco Molino 2280 m, comodo e spazioso. Ci siamo caricati di litri di acqua, perchè lungo il percorso, vista la stagione avanzata, non ce n'era. Non fa freddo, e con calma prepariamo un'ottima cena a base di polenta e salsiccia, accompagnata dal mio solito vinello valdostano.

Nel frattempo arrivano altri due alpinisti, anch'essi diretti alla cresta dell'ometto l'indomani. Un sorso di genepy, poi, prima di andare a nanna, mi attardo fuori dal bivacco ad osservare le stelle, che sono miliardi, è ben visibile tutta la via lattea, e la luce siderale rischiara le valli quasi come ci fosse la luna.

La notte è tranquilla, vengo svegliato dai movimenti degli altri ospiti del bivacco, guardando fuori vedo che le valli sono coperte da un gran bel mare di nubi. L'alba, infatti, è spettacolare, su quel tappeto immobile di nuvole. Colazione, e verso le 7.35 lasciamo il bivacco. Le luci del primo sole colorano di rosa la bella parete Nord dell'Uja, dove corrono classiche vie alpinistiche, come la Rosenkrantz e la Dionisi.

In meno di un'ora siamo al passo dell'Ometto, sotto al quale pascolavano alcuni begli stambecchi. Al passo tira un'arietta frizzante, ci leghiamo e attacchiamo la cresta. Sono stati cancellati i bolli rossi che indicavano la via, che comunque in molti tratti è logica, solo in alcuni si perde un po' ed è facile infognarsi, specie in caso di scarsa visibilità. Per fortuna oggi non corriamo il rischio, il mare di nubi se ne stà in basso e questo venticello tiene pulita la montagna.

La prima parte di cresta è solo in parte "arrampicatoria", rocce rotte e qualche passaggio di II, mai troppo esposta. Salgo per ora con gli scarponi, ben tranquillo a metà corda tra Romano ed Elisabetta.. Dopo il primo salto ed un tratto orizzontale in cui si cammina, la cresta si raddrizza nuovamente, e si arriva al tratto più impegnativo. Visto che le ho portate pure io, mi metto le scarpette, ma senza calzini, e tolgo pure i guanti per avere più sensibilità. Si attraversa un canale piuttosto esposto, è uno dei tre tiri sucessivi che faremo in sicurezza, per il resto tutto il percorso di cresta si può fare in conserva, più o meno protetta.

Il traversino in effetti, su placca, è già "interessante". Poi si sale verticalmente su roccia magnifica e ben appigliata, quindi rocce rotte ed altri bei tratti di arrampicata divertentissima che non supera mai il III, anche nei tratti più verticali. Fa solo un po' freddo a salire scalzi, ma non ne posso fare a meno, visto che le scarpette con le calze era impossibile indossarle..

Si potrebbe salire tranquillamente in scarponi, ma visto che le avevo portate, tanto valeva metterle. La maggior parte della cresta è dietro di noi, qualche vecchio bollo al minio mezzo sbiadito indica la via qua e là, ormai vedo il sole che mi illumina il viso e capisco che siamo in vetta. La pendenza si abbatte di colpo, pochi passi sulla pietraia sommitale e siamo a suonare la campana della cima. Che soddisfazione! Il panorama è spettacolare, soprattutto sulle montagne delle mie valli, ed il mare di nubi da il tocco in più.

Rimaniamo in vetta una mezzoretta, poi c'è da affrontare la discesa per la via normale del versante sud, che non è per nulla banale. Il percorso, infatti, si snoda in un sistema di cenge, salti e canalini, e la moltitudine scriteriata di ometti e segni rossi può indurre in errori e in varianti più esposte e difficili. Il mare di nubi è salito di quota, ma rimane per fortuna ancora basso, la nebbia su questa discesa non sarebbe divertente. La concentrazione deve essere sempre al massimo, si disarrampica in molti tratti, e ovviamente senza assicurazione, visto che scendiamo ormai slegati. La discesa di 500 metri ci impiega quasi un'ora e mezza, alle 12.45 finalmente siamo fuori dai casini e possiamo rilassarci e pranzare.

Fa molto caldo, e quando riprendiamo la discesa ormai sono in pantaloni corti. Finalmente c'è il sentiero, e dal bivio dell'alpe le Piane in giù, questo diventa morbido e più piacevole. Alle 15.30 siamo a Molera, decisamente accaldati. Cambio di vestiario, e giù ad Ala di Stura per festeggiare, con un paio di toast ed una birrazza gelata questa spettacolare gita, un gran bel dentino tolto, per un altro week-end alpinistico di grande soddisfazione.

Ho "dormito" tutta l'estate, ma in zona Cesarini ho infilato due colpacci che sognavo da tempo...

foto: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/uja.htm

lunedì 20 settembre 2010

Allalinhorn 4027 m, Hohlaubgrat (cresta est, PD+/AD-)

Dopo una lunga pausa dall’alta montagna, e dopo le rigeneranti vacanze, ritorno a fare qualcosa di decente in quota.
 
La scelta cade sull’Allalinhorn, ma non dalla troppo affollata e breve via normale, bensì dalla bella e poco impegnativa cresta est, la Hohlaubgrat.
 
Dopo la serata di venerdì esageratamente alcolica, il sabato mattina io ed il socio Gp partiamo dal Canavese con comodo, e in poco più di 4 ore siamo a Saas Fee. Solito, famigliare parcheggio, evitiamo la salita a piedi (scopro poi che c’è un percorso che evita le zone delle piste, facendo il giro da Plattjen) con la funivia del Felskinn che comodamente ci porta a quota 2990. Da qui, per facile percorso prima su nevai e poi su immonde pietraie, raggiungiamo la Britanniahutte.
 
Veniamo “rapiti” dagli occhi azzurri della camerierina “Heidi” (soprannome che le abbiamo dato noi) quando chiediamo una birretta, che consumiamo fuori al sole, osservando lo Stralhorn ed il Rimpifshorn. Prima di cena c’è tempo di un pisolo.
 
A tavola notiamo che siamo gli unici due italiani di tutto il rifugio, poco male. Solita cena svizzera, ma non malvagia, acqua a volontà visto che me la sono portata da casa, ricordando i prezzi stellari dei rifugi svizzeri in merito. Dopo una notte relativamente tranquilla, sveglia l’indomani alle 4.30. Colazione, sempre a fatica, ed alle 5 siam pronti a partire. E’ buio pesto, le giornate si sono decisamente accorciate.
 
Alla luce delle frontali scendiamo per sentiero sulle morene, al buio è laborioso trovare la traccia, ma aiutandoci anche con le luci di chi precede, arriviamo al ghiacciaio, e sono già sudato come una capra. Ci leghiamo e partiamo. Il ghiacciaio è adesso scoperto da neve, non c’è traccia e mi oriento con le frontali di chi è avanti di 200 metri. Tra 3100 e 3200 c’è una zona assai tormentata, parzialmente innevata di fresco, con ponti di neve più o meno invitanti. La traccia ora è visibile, ma appare e scompare. Con qualche zig-zag superiamo questo che è il tratto più crepacciato della salita, puntando ad una traccia ben visibile, ma che poi scopro essere quella della “scorciatoia” di chi fa la Hohlaubgrat in giornata.
 
La traccia per percorrere il classico percorso di cresta è più a sinistra, per cui, con molta attenzione, noi ed altre cordate attraversiamo un bel lenzuolo completamente bianco e senza tracce per andarla a riprendere.. ora siamo sul giusto. La pendenza aumenta e siamo al colletto 3470 m dove comincia la Hohlaubgrat vera e propria. Tratti di sfasciumi precedono dossi di neve, e la cresta si fa via via più estetica. Dai 3700, dopo un ennesimo dosso ed una discesina, inizia la parte più impegnativa. Le rampe sono ripide, affiora anche del ghiaccio vivo, ma ci sono buone peste e facendo attenzione si sale bene.
 
La cresta si fa più affilata, ogni tanto c’è la terminale che infidamente appare e scompare, e così arriviamo alla base della breve fascia di roccia, la parte tecnicamente più impegnativa della salita. C’è un po’ di intasamento, nel mentre il sole si è nascosto dietro spesse velature, ma nell’attesa passano e ci scalda di nuovo. Davanti a noi ci sono due crucchi un po’ imbranati che ci impiegano parecchio tempo a superare la fascia rocciosa, poi tocca a noi.
 
Vado avanti io, assicurato dal socio, il primo passaggio è quello più impegnativo, di III-, ma una corda a mò di mancorrente aiuta nella spaccata. Mi piace sempre arrampicare coi ramponi su questi gradi facili, gli spit sono comodi per assicurarsi e rinviare mentre salgo. Arrivo al fittone di sosta,  mi auto assicuro e recupero Gp. Quando mi raggiunge parto per il secondo tiro, questa volta di misto, e riprendo in mano la piccozza. Al secondo spit mi fermo perché ho finito la corda, e recupero di nuovo il socio. Ormai siamo fuori. Un ultimo passaggio di roccia e siamo sulla calotta sommitale. Pochi minuti di cresta orizzontale, mentre mi vien la pelle d’oca per il ritorno a quota 4000 e siamo in vetta!
 
Ovviamente è affollata di gente proveniente dalla normale, ma vien il turno di toccare la croce di vetta. Restiamo in cima una mezzoretta, ammirando il panorama spettacolare, poi è ora di scendere. La discesa per la normale è facile e senza pericoli, a parte l’attraversamento di un seracco/crepaccio poco prima di raggiungere le piste. Anzi, è più facile essere “investiti” da torme di sciatori impazziti.. in 50 minuti dalla vetta siamo già alla stazione del Metro Alpin. Ci sleghiamo e togliamo un po’ di indumenti, visto che sto crepando dal caldo, e saliamo “in carrozza”.
 
Velocemente siamo di nuovo al Felskinn, e da qui giù a Saas Fee. Raggiunto il parcheggio e cambiatici, poco dopo le 13 siamo seduti all’esterno di una vineria per un bel piatto di “kartoffensalad e arrosto di maiale”, accompagnati da un bicchiere di vino bianco fresco fresco, mentre in paese “impazza” una festa tradizionale e lassù, l’Allalinhorn, saluta il mio ritorno all’alpinismo.

Album fotografico: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/allalinhorn.htm

sabato 18 settembre 2010

Sulle strade dell'est - parte sesta


18 agosto – mare verso Nord
 
Giornata di mare, anche se travagliata per la ricerca di una caletta, tra vecchie basi militari jugoslave, moli privati, scogli taglienti come lame.. ma alla fine troviamo il nostro posto. E la sera  ci aspetterà una fantastica grigliata di pesce fresco, comprato alle 6.30 del mattino.. 5 kg di sarde e pesci tipo branzino, cucinati in modo egregio (parole dei commensali) dal sottoscritto.. e vinello bianco a volontà! Gran serata..
19 agosto – Grotta Manita Peć – Zadar
 
Siamo giunti all’ultimo giorno qui a Starigrad. Sfrutto il terzo ingresso per il parco per andare a visitare la grotta di Manita Pèc. Mentre altri vanno a fare una via lunga e qualcun altro solo a fare qualche monotiro, io ed altri andiamo su con calma. Alle 10 partiamo per raggiungere la grotta. Sono 500 m di dislivello, da percorrere nel canyon di Velika Paklenica. Finchè si sta all’ombra non fa eccessivamente caldo, ma appena si lascia il fondo del canyon e si comincia a salire, complice la vegetazione più rada, c’è letteralmente da schiattare di caldo.
 
Credo di non aver mai avuto così tanto caldo a camminare, e sono solo le 10 del mattino. La salita è davvero dura per il clima torrido, ogni tanto un po’ di brezza mitiga la fatica, regalando sensazione di fresco siccome siamo sudati marci.. arriviamo quindi finalmente all’ingresso della grotta, a 570 m di quota, preceduto da un belvedere sul selvaggio canyon.
 
La visita della grotta è piuttosto breve (20 min) e francamente non so se vale la pena vista la fatica fatta per salire fino a qui, ma l’interno, con una volta alta 70 metri e piena di stalattiti, stalagmiti e altre concrezioni calcaree è molto bello, e soprattutto fa fresco…
 
Uscire è uno shock non da poco, si passa da 15° a 40° circa…ma presto, ahimè, ci si riabitua, ed avendo pure finito l’acqua, scendiamo molto velocemente, quasi di corsa. Raggiungiamo di nuovo l’ombra e quindi la fontanella, l’unica che abbiamo visto, nel parco, dove posso dissetarmi. Rientriamo in appartamento, dopo pranzo, nel tardo pomeriggio, partiamo per Zara, dove ci riuniremo la sera.
 
Alcuni vanno al mare, noi andiamo direttamente a Zara/Zadar. Parcheggiamo nei pressi del porto-canale. Entriamo nella parte vecchia della città, cinta dalle mura costruite dai Veneziani, e ne percorriamo sia la via principale che qualche vicolo caratteristico. Sinceramente non mi entusiasma, forse c’è troppa discontinuità tra vecchio e nuovo, mi era piaciuta molto di più Dubrovnik, probabilmente anche per le dimensioni più contenute della città.
 
Mentre il sole pian piano va giù ci portiamo sul molo dove sono stati costruiti un orologio solare, costituito da celle fotovoltaiche che lo fanno muovere, ed il famoso “organo marino” inaugurato nel 2005. E’ costituito da 35 canne di diversa lunghezza, dove l’acqua del mare, spinta dalle onde, entra e produce diversi tipi di suoni. E’ forse diventata l’attrazione principale di Zara, infatti qua c’è una quantità di gente incredibile..
 
Però è suggestivo con la luce del tardo pomeriggio, ci sono torme di ragazzine che si tuffano dal molo, e il quadretto, con il sole radente, è assai pittoresco.
 
Dal molo assistiamo ad un infuocato e splendido tramonto, mentre gli ultimi raggi indorano la chiesa di San Donato e la palla gialla del sole tramonta dietro le isole.
 
Verso le 20.30 siamo tutti riuniti, e si va per “l’ultima cena” in terra croata, rigorosamente a base di pesce… salutiamo Zara verso le 23, rientrando a Starigrad, il giorno dopo rientreremo in Italia.
 
 
20 agosto – Zadar – Rivarolo C.se
 
Lasciamo Starigrad alle 9.30 del mattino, dopo adeguata spesa di vini, e ci immettiamo in autostrada. La scelta di partire il venerdì è azzeccatissima, c’è poco traffico, troviamo solo un po’ di coda alla frontiera con la Slovenia.
 
Questa volta non ci fregano, e non prendiamo l’autostrada ma la statale. Ci fermeremo per un ottimo pranzo a Kozina, alla kostilna Manhic, che produce anche ottima birra artigianale. Quindi altri centinaia e centinaia di km di autostrada, da Trieste a Rivarolo, fino a casa, che raggiungo alle 21.
 
Che dire, 3500 km sono alle spalle. 11 giorni per le strade dell’est, tra paesi, genti, e culture diverse, undici giorni tra le montagne del Friuli, le distese di sassi della Croazia, le pareti di Paklenica, i boschi e i fiumi della Bosnia, le immagini indelebili di Sarajevo, il mare limpido della Dalmazia. Sicuramente è stata una bella vacanza, non solo di “divertimento” ma anche di accrescimento culturale, toccando quasi con mano la difficile storia di un paese che non c’è più se non nei vecchi libri di geografia, la ex-Juogoslavia.
 
Un sentito grazie ai compagni di viaggio & avventura, alla prossima!
 
“In un posto insolito, in un'ora insolita, anche il discorso diventa insolito, come in un sogno.”
 
Da I racconti di Sarajevo, di Ivo Andrić

Foto Manita Pèc: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/manita.htm

Foto Zara: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/zadar.htm



FINE REPORTAGE "SULLE STRADE DELL'EST"

mercoledì 15 settembre 2010

Sulle strade dell'est - parte quinta


15 agosto – Climbing in Velika Paklenica & Starigrad
 
Non sono venuto in Croazia solo per arrampicare, tuttavia mi parrebbe stupido venire qui e non andare a scalare almeno un paio di volte..così dopo una sveglia posticipata per via della pioggia (cominciamo bene..), io e Roby decidiamo di andare a vedere la famosa Velika Paklenica, paradiso dei climbers. Qua non ha piovuto e pur essendo nuvoloso c’è un caldo umido degno di Bangkok.
 
E’ Ferragosto, e sta affluendo molta gente nel Parco Nazionale di Paklenica. Arrampicatori, escursionisti, semplici turisti.
 
Il posto è molto bello, una gola stretta con alte pareti di calcare che ricordano un po’ il Verdon. Sfogliando la guida, vediamo tra i primi settori che troviamo, uno denominato “Figa”… si sprecano le battute, in realtà in croato “figa” vuol dire fico, il frutto…
 
Dopo una prima vietta di 3b giusto per capire la roccia, ci buttiamo su (lla) Figa, 4b+, ricevendo delle sonore bastonate… come accade per il calcare, i passaggi lo ungono e lo lisciano, cosicchè i passaggi più impegnativi presentano prese, appigli e appoggi levigati come il marmo, facendoci sudare freddo, e pure con un fastidioso pubblico sottostante..infatti le vie sono proprio ai margini della stradina principale che entra nel parco!
 
Le ore passano in fretta,  tra bastonate più o meno sonore, nel frattempo arrivano gli altri nostri amici, ed esce il sole a surriscaldare l’ambiente. Scalare diventa impossibile, la roccia rovente, il caldo soffocante, e decido che per oggi basta! Mi siedo all’ombra e guardo gli altri, e soprattutto quelli che sanno arrampicare bene, e ci sono delle donne che lo fanno in maniera impeccabile ed elegante. C’è, nel movimento di chi sa scalare bene, una vera eleganza, una danza verticale.
 
Ci stupiscono poi dei gruppi di bambini e bambine, sui 10-12 anni, che scalano autonomamente, e vedere una bimbetta di 10 anni andare su da prima liscia liscia  dove io ragionavo ogni passo, mi fa capire quanto sono pippa..
 
Verso le 14 decidiamo di ritirare le nostre stanche ossa da quel posto, pranzo con un gelato, e poi c’è chi va in cerca di un posto per fare il bagno, chi si rintana a dormire in appartamento, chi, come me, decide di andare in esplorazione  nei dintorni di Starigrad. Vado verso il mare a fare due passi, e penso che può essere particolare, dopo aver passato la mattina a scalare, immergersi nel mare, cosa che prontamente faccio…
 
Mi rilasso una mezz’oretta, poi continuo la mia esplorazione, fino ad una graziosa chiesetta bianca dedicata a San Pietro, per poi ritornare lungo la Franje Tudmana Ulica alla nostra casa. Sono molte, nelle cittadine croate, le vie e i viali dedicati a Tudman, primo presidente della Repubblica Croata. Che, tuttavia, non è che è stato proprio un agnellino… quelli che han distrutto il Ponte di Mostar sono stati i croati…
 
La sera, tutti riuniti, festeggeremo il Ferragosto e la notizia che aspettavo da giorni, cioè l’esser diventato zio di una splendida bambina, con una grigliata accompagnata da buon vino croato, a conclusione di una giornata decisamente varia.
 
 
16 agosto – isola di Pag (Vlasiči)
 
Dopo la giornata mista di arrampicata/mare di Ferragosto, oggi lo si dedica solo al mare.. ci dirigiamo verso l’Isola di Pag, che si raggiunge attraversando un ponte spettacolare lungo 340 metri, sullo stesso stile di quello di Maslenica. Pag è un’isola di forma allungata, dall’aspetto molto brullo, ci sono solo sassi e qualche arbusto, pochissimi alberi, molte zone semi-deserte. Ci fermiamo a Vlasiči, un piccolo villaggio di mare, con relativa spiaggetta, in una delle tante insenature dell’isola. Giornata di mare e relax, ovviamente l’immobilità troppo duratura non fa per me, e così, nel pomeriggio, spinto da curiosità, col buon Mario, ci lanciamo nella “ascensione” di una montagnola quotata 72 metri sul livello del mare.. in infradito! Attraversiamo una zona acquitrinosa (dall’alto si vedrà come sia l’unica zona verde di tutto questo settore di isola), per imboccare un sentiero pietroso che sale, a mezzacosta, sulla pietrosa montagna. Fa molto caldo ma il venticello del mare mitiga la calura, arriviamo così in cima alla montagna, il panorama è spettacolare.
 
Dalle gole di Paklenica ai monti Velebit, al mare adriatico d’un blu profondo, alla brulla isola di Pag, fari, antenne e pale eoliche spuntano sulle dorsali pietrose dell’isola. Quassù è terreno da pecore, solo sassi, miliardi di sassi taglienti, cardi, arbusti spinosi, qualche pianta contorta dal vento. Salito fin quassù in infradito riuscirò anche a scenderne, senza distruggermi i piedi.. in mezz’ora siamo di nuovo alla spiaggia, ci si rilassa ancora un’oretta, poi quando il sole gira dietro la dorsale ed arriva l’ombra, decidiamo che è tempo di rientrare a Starigrad.
 
 
17 agosto - Climbing in Velika Paklenica – Devčići
 
Seconda giornata “arrampicatoria”. Questa volta ci alziamo tutti insieme, diretti alle gole di Paklenica. Fa più fresco dell’altro giorno..ci distribuiamo in vari settori, poi quando il sole arriva di nuovo sul lato sx ci spostiamo a destra, dove riceviamo le solite “bastonate”.. su un 4c sudatissimo e fisico, volo pure a metà tiro, non so come, con riflesso “felino” mentre precipito riesco ad “abbranchiare” saldamente con la mano destra una bella lama di roccia, come Stallone in Cliffhanger, evitando di scartavetrarmi contro la parete..dopo il volo, riprendo la salita, gli ultimi metri lisci, unti, con pochi micro appigli e appoggi mi fanno sudare e bestemmiare, ma alla fine arrivo in catena..mi dedico ancora ad un 5c da secondo, anche questo molto tecnico e fisico, per concludere con un 3b giusto perché il giorno prima mi incuriosiva e non lo avevo fatto.. facile, ma anche qui fino a 4 metri da terra nessuna protezione..della serie, se cadi, “cazzi tuoi!”
 
Viene ora di pranzo, e con essa il solito caldo atroce, per cui battiamo in ritirata, e salta fuori la proposta di andare a mangiare pesce.. ovviamente mi si invita a nozze, tempo di passare a casa e prendere costume e telo da mare, e via. Risaliamo la costa verso nord, e giunti a Devčići, ci fermiamo in un grazioso ristorantino con terrazzo sul mare.. libidine pura. Che meraviglia, al mattino a faticare sul calcare di Paklenica, ora qui a ricevere la giusta ricompensa. Un kg e mezzo di splendidi calamari grigliati, patatine e malvasjia dalmata, con l’arietta del mare che mitiga la calura.. e successivo bagno e relax. Questa è vita…..
 
Rimaniamo qui fino a tarda ora, poi rientriamo con uno stupendo tramonto sul mare, a conclusione di una delle più belle giornate delle vacanze.

Foto:

Free climbing in Velika Paklenica:

http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/paklenica1.htm

http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/paklenica2.htm

Scatti vari da Starigrad:

http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/starigrad.htm

Isola di Pag:

http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/pag.htm

Scatti vari da Devnici:

http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/devnici.htm


Fine quinta parte.





domenica 12 settembre 2010

Sulle strade dell'est - parte quarta


segue da: http://roby4061.splinder.com/post/23255573/sulle-strade-dellest-parte-terza

La strada scende tra pendii di pietre e sassi, dove non c’è nulla di nulla, e ci riappare il mare alla vista. Giungiamo sulla costa, fa caldissimo, superiamo Dubrovnik e in un paese poco distante troviamo posto in campeggio.
 
La sera ceniamo nella città vecchia con un ottimo piatto di cozze alla Bouzzara, quindi passeggiamo a lungo tra le vie discretamente affollate. Ritorneremo l’indomani mattina per visitare il resto con calma, oggi è stata una giornata di viaggio di nuovo abbastanza lunga.
 
14 agosto – Dubrovnik – Vgorac – Starigrad-Paklenica
 
Il mattino sveglia presto, smontaggio tenda e giù a Dubrovnik. La città vecchia, con i suoi due km di mura, è patrimonio dell’UNESCO. Detta anche la “Perla del mediterraneo”, è fatta di vecchie case, stretti vicoli, chiese, palazzi medievali. Manco a dirlo, nel 1991, successivamente alla dichiarazione d’indipendenza della Croazia dalla Repubblica Federale Jugoslava, la città fu messa sotto assedio dall’Esercito Popolare, dai Serbi e dai Montenegrini, che la bombardarono a lungo dalle montagne sovrastanti, incuranti del prezioso patrimonio storico che avevano sotto di loro. Un cartello all’ingresso delle mura ricorda quanti edifici furono colpiti durante il bombardamento del 6 dicembre 1991. Oggi i segni non si notano praticamente più, anche se la cattedrale presenta ancora qualche foro da scheggia. Il resto della città è completamente ricostruito e rinato, e ha ripreso i fasti di un tempo. Trascorriamo mezza mattinata qui, poi è di nuovo ora di mettersi in viaggio. Prendiamo la statale, con sosta pranzo nuovamente a Vrgorac (raznjici e ćevapćići) prima di tornare in autostrada. Usciamo a Maslenica, teatro di duri scontri nel 1993 tra l’esercito croato e le armate della Jugoslavia, lo spettacolare ponte ad arco infatti è stato ricostruito da qualche anno, era stato distrutto in circostanze poco chiare (si dice che sia stato fatto saltare dagli stessi croati, oppure che siano accidentalmente saltate delle mine posizionate negli anni 70 dalla JNA). Nel pomeriggio saremo a Starigrad-Paklenica, dove ci ricongiungiamo con gli altri gruppetti, partiti tutti in tempi differenti e provenienti da altre parti della Croazia, per la settimana “comunitaria” qui a Paklenica. Finisce così la prima parte itinerante della vacanza.



Foto su: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/dubrovnik.htm

lunedì 6 settembre 2010

"a quattromila metri l'aria ha un sapore particolare..ma bisogna guadagnarsela"


Parole del Grande Gaston Rebuffàt.

E ieri direi che me la sono guadagnata...




In vetta all'Allalinhorn 4027 m, salito per la Hohlaubgrat (cresta est), diff. PD+/AD-

Ritorno a quota quattromila dopo un anno di assenza e diversi mesi di "crisi mistica"

domenica 5 settembre 2010

Sulle strade dell'est - parte terza

13 agosto – Sarajevo – Republika Srpska – Dubrovnik
 
Alle quattro di mattina circa vengo svegliato dal canto di un muezzin…molto suggestivo, è il segnale dell’inizio delle ore di digiuno del Ramadan. Lì per lì non realizzo, capirò una volta sveglio che era un canto arabo quello che avevo sentito qualche ora prima nella notte.
 
Alle 7 ci alziamo, siamo pronti per una buona colazione, quindi lasciamo l’hotel. Scendiamo nuovamente in città, parcheggiando l’auto nei pressi del palazzo del Parlamento della Bosnia-Herzegovina, completamente ristrutturato (indelebile l’immagine dell’edificio in fiamme nell’aprile 1992 dopo la dichiarazione d’indipendenza) e ci dirigiamo verso il centro. Ripartiamo poi per la zona collinare, dove sorge il Kosèvo, lo stadio olimpico, che è tornato ad essere adibito a luogo di intrattenimento. Su una collina poco lontana, sorge il cimitero della città, diviso in settori (musulmano, cristiano cattolico, cristiano ortodosso, ebraico). Nei pressi dello stadio invece sorge un cimitero come tanti se ne trovano nei territori dell’ex-Jugoslavia. Le date parlano chiaro.. 92, 93 sono le date più frequenti. E a guardare le date di nascita (70/78 la maggior parte) si capisce il perché di una cosa che avevamo notato. A Sarajevo ho avuto l’impressione che manchi una generazione, la nostra. Risulta evidente anche passeggiando per le vie della città. Evidentemente ingoiata tra le fauci di una fottuta guerra, è una cosa abbastanza impressionante. E impressionante e deludente è constatare che l’uomo continua a non capire un cazzo (basta guardare un tg qualsiasi). Amarezza.
 
Mi raccolgo in un ideale silenzio e rispetto verso questi tutti questi morti, poi decidiamo che è meglio andare. Lascio Sarajevo comunque con una bella sensazione, quella che dà l’atmosfera di una città multiculturale che, dopo aver sofferto tanto, rinasce e si risolleva dalle proprie ceneri come l’Araba Fenice, senza dimenticare però ciò che è stato, perché serva come monito a mantenere viva la memoria, perché mai più accada.
 
Ripartiamo alla volta di Ilidža, per poi seguire le indicazioni per Srbnjie. Lasciamo così Sarajevo, percorrendo la valle della Bistrica, molto selvaggia e verde. Molti boschi e foreste, villaggi, case abbandonate crivellate di colpi. E’ decisamente una zona poco turistica. Entriamo presto nella Republika Srpska (la repubblica dei Serbo-bosniaci.. quella di Karadzič e Mladič per intenderci), e cambia il clima.. da quello ospitale della Bosnia, qui l’aria che si respira è più “pesante”. I cartelli sono tutti in doppia lingua (bosniaco e cirillico), e molto spesso le bandiere serbe ricordano quanto siano nazionalisti da queste parti (in Croazia ho notato la stessa cosa..la bandiera è ovunque). Tuttavia ci fermiamo a mangiare in una trattoria lungo la strada (solito agnello..e birra SERBA, per rimanere in tema nazionalistico), tuttavia il personale è molto gentile.
 
Ripartiamo, per questa suggestiva strada tra le montagne, col fondo non sempre dei migliori. Passiamo a fianco al Monumento ai caduti di Sudjieska, carattestico ed inconfondibile memoriale di guerra di stampo sovietico. Infatti fu fatto costruire da Tito per commemorare gli oltre 3000 partigiani caduti nella guerra contro le forze dell’Asse.
 
Ci fermiamo a fare il pieno nell’unica pompa di benzina in cento km, per poi proseguire verso Gacko. Lo raggiungiamo per una strada infame, tutta curve in mezzo ai boschi prima, e per rocce aride dopo, con pecore, capre e mucche che pascolano invadendo la strada. Paesaggio decisamente agreste e fermo a qualche decina di anni fa. Gacko è situato all’estremità di un immenso pianoro,a quota 1000 metri, dove fa un caldo terribile (31°). C’è un paesaggio semi lunare, e la centrale termoelettrica (a carbone) da il tocco direi da grande pianura russa.
 
La polizia ci coglie in fallo..59.9 km/h contro un limite di 40, e ci fa paletta. Sull’auto la scritta è in cirillico, ma la multa è ridicola (per noi occidentali), cioè 23 euri. Il bello è che avevo appena detto a chi guidava di rallentare.. beh poteva andarci peggio, essendo tra i serbi.. sbagliamo pure strada e dobbiamo tornare indietro ripassando davanti alla polizia, percorrendo poi questo immenso altipiano, e tornando tra i boschi. Passiamo per Bileća ed il suo splendido lago. Non c’è che dire, paesaggisticamente queste zone sono molto belle. Giunti a Trebnjie le indicazioni sui cartelli stradali sono soltanto più in cirillico, e devo cercare di tradurli, con ciò che ricordo dell’alfabeto russo.. evitiamo di perderci, ritrovando poi finalmente le indicazioni per Dubrovnik. Superiamo senza problemi la frontiera tra Republika Srpska/Bosnia-Herzegovina e siamo di nuovo in Croazia.

Foto Sarajevo parte seconda: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/sarajevo_2.htm

Foto Republika Srpska: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/srpska.htm

Fine parte terza.

martedì 31 agosto 2010

Sulle strade dell'est - parte seconda


12 agosto – Vrgorac – Metkovič – Mostar – Sarajevo
 
Da queste parti il sole sorge presto, ed alle 6, pur essendo un paese piccolissimo, c’è già molto movimento. Ci svegliamo e dopo colazione partiamo alla volta della Bosnia, con l’intenzione di giungere a Sarajevo nel pomeriggio. La statale per Metkovič non è delle migliori, trafficata e con fondo non sempre bello. Ma è l’unica arteria stradale, l’autostrada è ancora in costruzione, con degli sbancamenti immensi (impatto ambientale mostruoso..) nella valle sottostante. Passiamo per qualche sperduto villaggio, quindi una zona paludosa (l’unica verde in decine e decine di km) e quindi l’importante centro di Metkovič. Superatolo, a poca distanza c’è la frontiera. Nessun problema ai controlli, e siamo così in Bosnia-Herzegovina.
 
Si nota subito.. la strada corre a fianco alla Neretva, splendido fiume dall’acqua verde smeraldo, e i villaggi presentano moschee e chiese ortodosse le une vicine alle altre. Cominciano ad apparire anche le prime case coi segni della guerra…e più ci avviciniamo a Mostar, e più sono evidenti. La periferia è ancora in buona parte da ricostruire. Ci dirigiamo verso il centro, parcheggiamo, e quindi ci incamminiamo verso lo Stari Most, il Ponte Vecchio, costruito dai turchi nel XVI secolo E’ bello vederlo di nuovo in piedi, e mi fa una certa emozione, perché ricordo benissimo le immagini dei TG di allora, il suo crollo sotto le cannonate dei Croati. Cedette alle granate il 9 novembre 1993, crollando nella Neretva. E’ stato ricostruito nel 2004, fedelmente all’originale (di cui sono presenti alcuni blocchi a bordo fiume). L’intera città vecchia è Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
 
Passeggiando tra le vie di Mostar, mi colpisce subito il miscuglio di etnie, culture e religioni, cosa che avvertirò maggiormente a Sarajevo. Una ragazza musulmana col velo chiacchiera senza problemi con un’altra cattolica ortodossa, pacifica unione tra oriente e occidente….
 
E’ suggestivo camminare per queste strade, non mi mancano i brividi, vedendo le case coi segni dei proiettili e quelle ancora distrutte. E’ una città che sta ricominciando a vivere, dopo tanta sofferenza e tanta distruzione. Si respira un bel clima, sono pochi i turisti italiani (per fortuna..). I minareti si stagliano contro il cielo, mescolati a qualche chiesa ortodossa, sulla montagna che sovrasta la città si staglia un’enorme croce bianca.
 
Ci difendiamo dal caldo terribile con una birra in uno dei caratteristici locali, quindi ci rimettiamo in viaggio per Sarajevo. Seguiamo sempre la valle della Neretva, toccando un lago artificiale, e le cittadine di Jablanica e Konjic. A circa 40 km da Sarajevo ci fermiamo a pranzare in una caratteristica “trattoria” lungo la strada. E qui abbiamo il primo impatto con la gentilezza e dell’ospitalità dei bosniaci.
 
Un vassoio di agnello allo spiedo: è una caratteristica dei paesi slavi… è pieno di grill lungo le strade, con a seconda delle zone si vedono questi barbecue, a volte molto artigianali, dove girano o agnelli o maiali (non nella Bosnia musulmana, naturalmente). Ci viene offerto il dessert, un dolce tipico musulmano. Chiacchieriamo a lungo con la cameriera, che è stata in Italia per quasi vent’anni (è andata via a 10 anni da Sarajevo per via della guerra, ed è tornata lì solo da un mese), conoscendo qualcosa di più delle usanze e delle tradizioni della Bosnia. Ci dice che in Italia si è trovata bene, ma è tornata lì perché “casa è casa”.
 
Dopo pranzo ripartiamo alla volta di Sarajevo, sempre per questa strada tra le montagne, cosparse di villaggi e case distrutte e abbandonate. Appaiono sui cartelli stradali nomi di città come Goražde o Tužla, e vengo percorso dai brividi. Superiamo le famose località termali di Ilidža, ed entriamo in città per la Zmaja Od Bosna, la grande via di accesso a Sarajevo, durante la guerra tristemente nota come il “viale dei cecchini”.
 
Mi fa un certo effetto l’ingresso in città, molti dei palazzi popolari fatti costruire da Tito (inconfondibile lo stile socialista) recano i segni di proiettili e granate, molti fori sono stati tappati alla bell’e meglio. Il contrasto è con i palazzi ristrutturati, ricostruiti o i nuovi “grattacieli”, che sorgono a fianco di case sventrate. L’area della stazione ferroviaria è una di quelle che maggiormente presenta i segni della guerra. Dobbiamo prima di tutto cercarci una sistemazione, abbiamo qualche indirizzo, l’Holiday Inn, l’unico albergo funzionante durante l’assedio del 92-95 perché vi alloggiavano i giornalisti stranieri, è piuttosto caro (si fa per dire, perché 45 euro per un 4 stelle in una capitale di stato da noi sarebbero impossibili..)
 
Troviamo poi l’hotel (Italia..)che fa al caso nostro, nel quartiere Polafiči, nella zona collinare della città. Personale cortese, gentile, prezzi veramente ridicoli (20 euri a testa) pensando che siamo comunque in una capitale e struttura ben tenuta e piacevole. Scendiamo quindi in città, parcheggiando lungo il corso del fiume Miljacka. Entriamo nel cuore pulsante della città, cioè Sarači, tra vicoli stretti, bazar e botteghe di artigiani dai colori e sapori mediorientali. E’ proprio questo che mi colpisce e mi lascia il ricordo migliore di questa città, questa mescolanza tra oriente e occidente. Ragazze col velo passeggiano insieme a ragazze vestite all’ultima moda occidentale (tutte bellissime tra l’altro.. le ragazze di Sarajevo sono quasi tutte splendide). E mi chiedo e penso quanto siano assurdi gli integralismi religiosi che vorrebbero impedire questa fusione di culture.
 
Passiamo a fianco della Moschea di Gazi Husrev-Beg. Oggi inizia il Ramadan ed è l’ora della preghiera, il canto dell’Imam è decisamente suggestivo. Sul muro della moschea c’è una fontanella dalla quale sgorga acqua freschissima. Ecco un’altra caratteristica di Sarajevo sono le fontane con l’acqua ottima. Proseguiamo poi per la via centrale, la Ferhadjia, che porta nella piazza dei Piccioni, con la bella cattedrale ortodossa del Sacro Cuore. Poco distante c’è la piazza “ufficiosamente” dedicata a Izetbegovič, il “nonno” della Bosnia. Il nome ufficiale però è “della Liberazione”, in ricordo della guerra partigiana contro i nazi-fascisti.
 
Qui ci sono anziani che giocano a scacchi con delle caratteristiche e grandi pedine, poco distante si trovano la facoltà di economia, una chiesa ortodossa serba, recentemente ristrutturata, e il monumento all’”uomo multiculturale” che “ricostruirà il mondo”. E’ proprio questa mescolanza di moschee, chiese ortodosse, chiese cattoliche, sinagoghe, le une vicine alle altre, che fa di questa città la “Gerusalemme dell’Est”. Proseguiamo nella visita, percorrendo il viale Maršala Ttita (Maresciallo Tito), dove si trova la Fiamma Eterna, in memoria dei caduti di tutte le guerre. Proseguiamo fino al ponte di Skenderjia, dove si trova il palazzetto del ghiaccio utilizzato durante le olimpiadi invernali del 1984. Sono ancora molti i segni in città di quell’evento, e c’è la volontà di recuperare quella memoria e di ristrutturare gli impianti (anche la pista da bob e i trampolini del salto, sul monte Trebević) seriamente danneggiati dalla guerra.
 
Costeggiamo nuovamente il fiume di Sarajevo, la Miljacka, passando a fianco del Ponte Latino, dove, il 28 giugno 1914 uno studente serbo, Gavrilo Prinčip, assassinò l’erede al trono asburgico Francesco Ferdinando. Fu la scintilla che scatenò la Prima Guerra Mondiale, è forse da allora che questa regione si è presa l’appellativo di “polveriera balcanica”…
 
Si è fatto tardi, rientriamo in hotel, giusto per una doccia e una sistemata, e poi siamo pronti a ritornare in città per cena. Questa volta prendiamo un taxi, economicissimo, e in pochi minuti siamo in centro.  Un semplice kebab (ma completamente diverso da quelli che si mangiano in Italia) e siamo a posto, perché siamo ancora appesantiti dal pranzo.
 
Le viuzze della città vecchia sono caratteristiche anche di sera, ed è quasi d’obbligo una sosta in un caffè turco, per sorseggiare, con calma, un caffè………………..turco, naturalmente.
 
Ci attardiamo a lungo tra le vie ancora pulsanti di vita, capitando quasi per caso al Markale, il luogo della spaventosa strage del 5 febbraio 94 quando una granata serba cadde sul mercato coperto causando 67 morti. Una lapide  ricorda la tragedia, e mi si gela il sangue, perché le immagini di quell’evento rimasero impresse nella mia mente di adolescente, e le ricordo ancora oggi distintamente. Follia umana, continuo a chiedermi come fosse possibile, e sembra così lontano, nel vedere ora questa città che “apparentemente” convive senza problemi nella sua multiculturalità.
 
Con un altro taxi (anch’esso con musiche orientali di sottofondo), rientriamo in hotel che è quasi mezzanotte, l’indomani ci aspetta un viaggio abbastanza lungo.

Foto Mostar: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/mostar.htm

Foto Sarajevo (1): http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/sarajevo_1.htm

Fine seconda parte.

lunedì 30 agosto 2010

Underground

Un film surreale di Emir Kusturica, regista serbo nato a Sarajevo.


Una tragicommedia che ripercorre, con momenti surreali, attimi di commedia e parentesi drammatiche la complessa storia dell'ex-Jugoslavia dal 1941 al 1995, attraverso le vicende di due amici.


Finale surreale, con l'unico protagonista rimasto in vita, il Nero, che ritrova l'amico e un mondo che non c'è più, sulle rive del Danubio.. mentre si stacca un pezzetto di terra a forma di Jugoslavia, che va alla deriva.


Allegoria di un paese che non c'era più. Il tutto condito con le musiche dell'eclettico Goran Bregović.


Da vedere.



 


 


 

venerdì 27 agosto 2010

Sulle strade dell'est - parte prima


SULLE STRADE DELL’EST
 
10-20 agosto 2010



 




 
Non è facile riordinare le idee e le foto dopo 11 giorni e 3500 km per le strade dell’est. E’ stato un viaggio molto bello, ricco di cultura e spunti di riflessione, oltre allo spirito “vacanziero” classico. Da Erto a Redipuglia, da Mostar a Sarajevo, da Dubronik a Zara sono molte le cose da raccontare, anche perché era da molto tempo che volevo visitare questi luoghi.
 
Il ricordo più bello rimane legato all’ospitalità dei Bosniaci, alla bellezza dei paesaggi della Bosnia, alle città di Mostar e Sarajevo, con evidentissimi ancora i segni dell’assurda guerra terminata poi soltanto 15 anni fa, ma ricche di vita. E’ stata piacevole la sensazione di camminare in una città che sta rinascendo dalle proprie ceneri come l’Araba Fenice.
 
Ma andiamo con ordine, partendo dal primo giorno, martedi 10 agosto.
 






10 agosto – Rivarolo C.se – Longarone – Diga del Vajont – Erto – Casso – Barcis
 
Sveglia ore 3. Senza fare colazione mi dirigo a Rivarolo, dove ci troviamo per caricare l’auto. Alle 3.50 partiamo alla volta dell’Est. Non c’è traffico, alle 8 siamo già a Longarone. Breve visita al memoriale della tragedia dell’ottobre ‘63. Il paese è completamente ricostruito, la chiesa, interamente in cemento armato, è forse la più brutta che ho mai visto. Al solito, quando si ricostruisce, si dimentica l’architettura del luogo per costruire degli obbrobri che non stanno né in cielo né in terra. Bah.
 
Saliamo quindi verso Erto, da Longarone la diga del Vajont è “beffardamente” al suo posto, resistette infatti all’onda. Parcheggiamo nei pressi della diga, per la visita guidata. Dal 2007 è possibile percorrere il coronamento della struttura, là dove c’era la strada di servizio spazzata via dall’onda. Certo che è impressionante, la frana sul Toc, con il suo caratteristico profilo ad M è una presenza opprimente, il resto della montagna è nel mezzo della valle, là dove c’era il lago. La storia del Vajont, ormai, grazie allo spettacolo commovente di Paolini del ’97 ed ai libri di Mauro Corona è ben conosciuta. Rimane l’interrogativo di come si siano potuti ignorare i segnali che la montagna dava.. potere del dio denaro, ancora una volta macchiato di sangue. Ricordo il libro della Merlin, le sue indagini, ostacolate da più parti… ma del resto scriveva per l’Unità…
 
Rimane impressionante anche solo pensare ad una quantità tale di roccia e terra che cade in un lago a 90 km/orari.. l’onda che scavalca la diga, che si incanala nella strettissima gola del Vajont, per poi esplodere all’uscita del canyon, di fronte a Longarone, e cancellare in un attimo duemila vite.
 
Dopo la diga saliamo a Casso e poi Erto vecchia. Molto, negli stretti vicoli dei due paesi, è rimasto come allora. Case diroccate, porte e finestre sprangate, sono due paesi mezzi morti. All’ingresso di Erto c’è un traliccio piegato dall’onda e rimasto lì così com’è da quasi 50 anni. C’è una certa atmosfera di decadenza, anche se qualche giovane è tornato ad abitare la Erto vecchia e qualche timido segnale di rinascita c’è. Saliamo ad Erto nuova, e davanti alla bottega di Mauro Corona, appare lui in persona, ma non è della giornata e dell’umore adatto per fare conversazione. Peccato, sarà per un’altra volta.
 
Nel primo pomeriggio il tempo peggiora notevolmente, tuona dalla val Cimoliana. Percorriamo tutta la strada che fa il giro del “lago”, a tratti sterrata e con diverse gallerie. E’ in parte la strada originale degli anni sessanta che circondava il bacino artificiale. Dopo scendiamo a Barcis, dove faremo sosta per la notte in campeggio. Nel pomeriggio tuona e piove, la sera ci troviamo con degli amici per bere qualcosa ed un saluto, prima di andare a nanna, la giornata è stata pesante e l’indomani ci aspetta un lungo viaggio.

Foto su: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/vajont.htm
 
 






 
11 agosto – Barcis – Redipuglia – Vgorac
 
Altra sveglia mattiniera, oggi di chilometri ne abbiamo da macinare. Cercheremo di spingerci più in fondo possibile alla Croazia. Da Barcis percorriamo la valle piena di impianti idroelettrici (infatti il Vajont era la summa del reticolo idroelettrico della zona), giungendo a Maniago e quindi a Pordenone, dove ci immettiamo in autostrada. Ne usciamo a Redipuglia, per visitare il Sacrario Militare. E’ mattino presto, non c’è praticamente nessuno, e l’atmosfera è abbastanza inquietante.
 
Saliamo lungo le immense gradinate, migliaia di nomi indicano i caduti delle undici grandi battaglie sull’Isonzo, Prima Guerra Mondiale. Tra i nomi trovo un Maruzzo Angelo, nome tra l’altro molto comune nella mia famiglia.. potrebbe essere un lontano parente…indagherò. Proseguiamo fin sulla sommità della collina e del sacrario, dove una Cappella racchiude i resti di trentamila (TRENTAMILA!!!) militi ignoti. Cioè trentamila soldati, trentamila persone di cui non si sa il nome. Assurdo. A ragione quella guerra venne definita dal papa dell’epoca come “assurdo macello”.
 
Nei dintorni del Sacrario vi sono una planimetria in rilievo con le posizioni del fronte nel 1916, e diversi cannoni e monumenti ai vari corpi dell’esercito che presero parte alle battaglie. Questo Sacrario fu fatto costruire dal Duce nel Ventennio, ed infatti lo stile è inconfondibile. Una beffa, tra l’altro, visto che fu terminato nel 1938, giusto in tempo per cominciare un’altra guerra mondiale…e preparare il terreno per altri sacrari.
 
Bah.
 
Ripercorriamo le gradinate in discesa, sotto il sole che ora picchia forte, ed è ora di rimettersi in viaggio, direzione est e poi sud-est. A Trieste superiamo la frontiera con la Slovenia, non ci sono indicazioni chiare sulla “vignetta autostradale” (ho visto solo di sfuggita un cartello scritto a pennarello di 40x50 cm con scritto sopra “vignetta qui”), quando i miei amici erano stati due anni fa c’erano i normali caselli.. infatti è una novità del luglio 2009.
 
Quando usciamo dall’autostrada per prendere la statale, ecco la polizia che ci ferma appena usciti dal casello.. un bel foglietto con lo spiegone in italiano e 300 euro di multa. Che si riducono a 150 se si paga subito.. maledetti sloveni. Il poliziotto ammette che la cosa non è ben segnalata. Si stanno italianizzando, e studiano i modi per inculare gli stranieri…
 
Bah. Ormai la frittata è fatta.. entriamo in statale ancora schiumando di nervoso, ce lo faremo passare fermandoci in una gostilna (trattoria) in territorio sloveno, prima di passare il confine.
 
Almeno sul cibo e sulla birra gli sloveni ci trattano bene..ripartiamo, siamo in breve alla frontiera e senza problemi entriamo in territorio croato. Passata Rupa, entriamo poi in autostrada. E ne percorriamo centinaia di km, con paesaggio decisamente monotono e brullo. L’autostrada, penso la più grande opera pubblica della Croazia degli ultimi 40 anni, passa lontano dalla costa, in un territorio dove non c’è assolutamente nulla. Prima boschi, poi colline di pietre e arbusti, con pochissimi villaggi, quasi nessuna strada, qualche casupola diroccata. Il nulla più totale, secco e arido per molte decine di chilometri. Mi ha molto colpito questa cosa. L’autostrada finisce poco prima di Vrgorac, che raggiungiamo per una statale tutta curve, sospesa su una valle. Vista l’ora tarda e i circa 700 km percorsi, decidiamo di fermarci in un piccolo ma moderno hotel lungo la statale. Proseguendo si troverebbe il bivio per il santuario mariano di Međugorje, che si trova a meno di 30 km in territorio bosniaco.
 
Ceneremo in un piccolo ristorantino (Ristoran TIN, nome assurdo..), con degli ottimi raznjici e una splendida birra fresca. Il primo impatto con la cucina croata è decisamente positivo. Andiamo a dormire decisamente stanchi.

Foto su: http://www.roby4061.it/2005/photobook/2010/redipuglia.htm

Fine prima parte.
 

domenica 22 agosto 2010

Nostalgia Balkanika


Ed eccomi tornato, dopo 3500 km per le strade dell'est. Molto ho visto e molto ho da raccontare di questo viaggio. Dalla diga del Vajont e dai paesi ancora feriti da quella tragedia, Erto, Casso e Longarone, al sacrario militare di Redipuglia, monito e simbolo di quell'assurdo macello che fu la Prima Guerra Mondiale.

Dalla Croazia interna, coi suoi paesaggi brulli e i suoi villaggi, alla Bosnia-Herzegovina, con la perla di Mostar ed il suo ricostruito Ponte Vecchio e la città di Sarajevo, dove sono ancora evidenti i segni di quel massacro che furono le laceranti guerre degli anni 90, che portarono alla sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia.

Dal paesaggio rurale della Republika Srpska, cioè "l'enclave" serba di Bosnia, alla città di Dubrovnik, la perla del Mediterraneo. Dal grigio calcare del Parco di Paklenica, al brullo terreno dell'isola di Pag, alla moderna Zadar.

Ne ho viste di cose in questi 3500 km, ma credo che il ricordo più bello di questo viaggio resterà legato all'ospitalità ed alla gentilezza dei Bosniaci, al profumo dei bazar di Sarajevo, al miscuglio di culture e religioni di questa città che ha sofferto il più duro e lungo assedio della storia moderna, nel 1992-1995.

Ancora oggi, in città e nei dintorni, sono visibili i segni di un'assurda mattanza che ha segnato la mia adolescenza, un terribile inferno nel cuore di un'Europa impotente. Ma la bella sensazione che mi è rimasta di Sarajevo è quella di una città in rinascita, sta tornando a vivere dopo l'oblio, rinasce dalle proprie ceneri come l'Araba Fenice.

Su queste pagine, mano mano, racconterò questo viaggio nell'est per parole e foto.




Lungo la via di accesso principale a Sarajevo arrivando da Mostar, la Zmaja Od Bosna, ai tempi della guerra tristemente conosciuta come il "Viale dei Cecchini", un palazzo che reca ancora i segni dei proiettili.

lunedì 9 agosto 2010

Est! Est!! Est!!!


L'est chiama. C'è sempre qualcosa di affascinante nelle terre dell'est Europa, sarà il mix di culture, l'incontro tra occidente ed oriente, la fusione di stili di vita e mondi diversi.. ma è di nuovo ora di spingersi là dove sorge il sole.



Ready to go. Direzione est.

sabato 19 giugno 2010

E mentre il grano ti stava a sentire..




dentro alle mani stringevi il fucile

dentro la bocca stringevi parole

troppo gelate per scioglieri al sole..


giovedì 27 maggio 2010

Transumanza

Questa mattina alle 2.15 è passata la prima mandria diretta verso le Valli di Lanzo.. in anticipo rispetto agli altri anni, e non ho capito il motivo, visto che in alto la stagione è in ritardo..


Pur essendo svegliato nel cuore della notte dal frastuono di un centinaio di vacche con i campanacci, è sempre un bello spettacolo, vale la pena alzarsi e guardarle passare.


Sono più di trent'anni che assisto a questa bella tradizione :-)



 

lunedì 10 maggio 2010

Chaberton




"Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera rupe, è troppo bello per pensarci ancora"

Cesare Pavese

lunedì 3 maggio 2010

3 maggio 2003


Sono già passati sette anni.
 
Sette anni in cui ne sono successe di cose…avrei voluto raccontarti di nuove montagne, di ghiacciai, di rocce, di quattromila, di sciate che quando mi accompagnasti nelle mie prime gite sci alpinistiche mi sarei solo sognato di fare.
 
Sicuramente saresti stato felice di vedermi migliorare anno in anno, rispetto a quella prima gita del gennaio ’99 in cui cadevo ad ogni curva come un sacco di patate.
 
Magari mi avresti anche preso un po’ per pazzo e me ne avresti dette di tutti i colori se ti avessi fatto vedere la foto del canale della Becca di Gay, o magari invece ne saresti stato orgoglioso. Chissà se da quella prima gita mi avresti immaginato a fare pure l’aiuto-istruttore...
 
Chissà..
 
Chissà cosa avresti pensato del mio ritorno all’arrampicata dopo l’esperienza negativa della Ribaldone.. beh su questo, in effetti, ci avrei scommesso poco pure io…
 
Avrei voluto, in questi anni, farti vedere come è cresciuto il mio sito, che non sarebbe mai nato senza l’imprinting che mi hai dato verso il mondo delle “terre alte”.
 
Avrei voluto raccontarti di montagne desiderate e sognate da tempo, e poi salite con fatica e magari “osando” un po’ troppo. Avrei voluto descriverti l’emozione che provai, quel giorno di fine luglio 2006, quando mi affacciai sul colle di Valnontey, e vidi il ghiacciaio della Tribolazione, che percorsi con lo sguardo fino a quel campeggio un po’ spartano, ma a cui noi eravamo affezionati. E nel mentre mi rivedevo mentre camminavamo per la strada per Valmiana, luglio 1995, e ti dicevo “ho deciso, l’anno prossimo mi iscrivo al CAI”.
 
Avrei voluto raccontarti l’emozione provata quando finalmente raggiunsi la Madonnina del Gran Paradiso, l’unico quattromila che salisti pure tu.
 
Avrei voluto farti conoscere le persone entrate nella mia vita in questi anni, sia delle molte che ci sono ancora, sia di quelle che han preso altre strade.
 
Avrei voluto farti conoscere i miei amici di montagna, i miei “soci” di sciate, ascensioni, arrampicate, semplici passeggiate. Sicuramente ti sarebbero piaciuti e saresti andato d’accordissimo con loro, e saresti stato felice nel vedermi “girare per montagne” con un così bel gruppo di compagni e compagne. Del resto, come hai avuto anche modo di imparare tu negli anni sessanta e settanta, la montagna crea profondi legami d’amicizia e fiducia che durano una vita intera.
 
So per certo che in questi anni mi hai seguito lo stesso, e tutto quel che mi è successo non è necessario che te lo racconti, perché in fondo sei sempre stato e continuerai ad essere qui. Ma so anche che non è la stessa cosa, purtroppo. Sei stato pur sempre un punto di riferimento che è venuto a mancare, ed un punto di riferimento come un padre, è e rimane unico e insostituibile.
 
E’ vero che non si è eterni e tutti, prima o poi, ce ne dobbiamo andare, ma avrei sperato di poter ancora parlare “a voce” con te per molti e molti anni, di poterti raccontare queste cose “dal vivo”.
 
Purtroppo è andata diversamente, e non potevamo certo immaginarlo, ho solo il rimpianto che la “malattia dei monti” non mi sia venuta prima, avremmo potuto condividere qualche anno in più di sentieri, rocce e nevai.
 
Ma la gratitudine per avermi trasmesso nel DNA l’amore per la montagna è e rimarrà sempre immensa. E la mamma e Luisa, mi assecondano, anche se sicuramente con qualche remora in più, nelle mie scorribande alpine, perché sanno che quello è il mio mondo.
 
Sono passati sette anni da quel caldo 3 maggio 2003, da quella mattina quando alle 8.45, lasciasti questa stanza per salire in Cielo.
 
Quel giorno “terminasti la tua salita più difficile e salisti sulla cima della montagna più alta”.
 
Ciao Pà.
 
3 maggio 2010




31 ottobre 1998, rifugio Ferreri 2200 m, vallone della Gura.