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venerdì 31 dicembre 2010

Saluto al 2010.

Un altro anno è passato, migliaia di ricordi che vanno ad aggiungersi all’album della vita.
 
Una sciata il primo dell’anno, tre amici, ampi pendii intonsi di polvere.
Le prime esperienze come aiuto-istruttore di scialpinismo.
Una bufera di neve a metà febbraio.
Ed altre due spettacolari nevicate marzoline.
Una notturna a Punta Sourela.
Una mattinata rubata al lavoro per godersi in totale solitudine l’ultimo Soglio dell’anno con la neve primaverile.
Il vento bestiale di quella domenica in alta val Pellice.
I pendii lisci come biliardi del Barrouard.
La prima curva nel canale della Becca di Gay.
L’orrenda neve del Piantonetto.
Innumerevoli buchi nell’acqua, nella neve brutta e nelle nuvole di un anno col tempo dispettoso.
Una sciata imperiale alla Rognosa del Sestriere.
Due cari amici diventati genitori.
I tredici laghi in una giornata nebbiosa.
Le arrampicate serali a Montestrutto, Voira, Ponte del Diavolo.
I miei primi 6a.
Feste di paese, mangiate, l’Orgoglio Alpino in Val Varaita.
La gioia di qualcuno sul suo primo tremila.
La crisi “vocazionale” per l’alta montagna.
Il ritorno alle alte quote nella valle più amata.
La diga del Vajont, le stradine di Erto, Mauro Corona.
La gentilezza dei bosniaci.
Il ponte di Mostar e la verde acqua della Neretva.
I segni della guerra ancora presenti nell’area balcanica.
Le ragazze di Sarajevo.
La fusione di culture e religioni in pace.
Una città che rinasce.
Le strade della Bosnia-Erzegovina.
La cucina dell’est.
Il mare della Croazia.
La roccia di Paklenica.
I calamari grigliati accompagnati dalla Malvasja di fronte al mare.
Il profumo del sale, il suono delle onde.
La grotta di Manita Pèc. Il caldo atroce dell’agosto balcanico.
L’organo Marino di Zara.
Quel tramonto dal molo, con la mente che spingeva ad ovest.
Il ritorno a casa.
Francesca, la mia nipotina.
Il ritorno a quota 4000.
L’alba sull’Hohlaubgletscher, quel passaggio di III°, l’arrivo con la pelle d’oca in vetta all’Allalinhorn.
La fine della “crisi”.
Un bivacco, due amici , la campana in vetta all’Uja di Mondrone e quella cresta sognata da anni.
Una stella senza cielo.
Un pomeriggio di fine estate, due mani che si incrociano.
Due fratelli di papà saliti in Cielo a fargli compagnia.
L’ultima alpinistica della stagione su una Basei deserta ed in veste invernale.
I mari di nubi dell’autunno.
Le gite con cari amici tra i larici dorati e le prime nevi.
Quattro giorni tra i colori autunnali in Provenza con una persona speciale.
Il mare della Camargue.
La Paella.
Le vigne del Luberon.
Il Mistral.
Gli occhietti sorridenti.
La gioia di essere zio.
Gli sci a cui levare la polvere.
La ruggine da togliere alle gambe.
Mattoncino su mattoncino.
Una strada da percorrere assieme.
La neve effimera di inizio inverno.
La pioggia di Natale.
La neve di Santo Stefano.
La poudreuse della Pala Rusà e del Lion
Una persona da curare
Gli ultimi giorni dell’anno, “qualcosa” da costruire.
 
….ed un sorriso per l’anno nuovo che sta per cominciare, tenendo la vita per mano.




lunedì 13 dicembre 2010

Sarajevo mon amour

Reduce dal mio viaggio attraverso parte della ex-Jugoslavia nell’agosto scorso, ho cercato di approfondire le vicende storiche delle guerre che hanno martoriato le regioni balcaniche negli anni novanta.
 
Tra i libri che mi sono procurato c’era anche questo, che ho appena terminato di leggere. E’una lunga intervista a Jovan Divjak, il generale di origini serbe che difese la “sua” Sarajevo dall’aggressione dei serbo-bosniaci di Karadzic e Mladic.. serbo che combatte contro i serbi, il libro-intervista è interessante per capire cosa significò vivere a Sarajevo durante gli anni dell’assedio, per capire su quali basi diplomatiche, forse ancora troppo fragili, si regge la Bosnia-Herzegovina di oggi, per comprendere quanto è ancora lungo il cammino per una “normalità” in quella regione.
 


Dal sito dell’editore (infinito edizioni) riporto:

«Vivo da 40 anni nello stesso quartiere, a Sarajevo, a due passi da un’antica chiesa ortodossa e da una moschea del XVI secolo. E salendo appena, da casa mia, raggiungo il seminario cattolico. Prima della guerra, quest’armonia, nata dalla differenza, si ritrovava nella vita d’ogni giorno… Sarajevo m’ha aperto gli occhi. Ero stupito nel vedere una città così ricca di grandi qualità umane, soprattutto la tolleranza e la generosità».

La guerra, le figure fosche di Milosevic, Karadzic e Mladic, ma anche le contraddizioni e i voltafaccia della componente musulmana durante la guerra e i nazionalismi sorti dalla devastazione bellica sono rivelati e spiegati in un libro carico di pathos destinato a finire tra i grandi volumi di storia.

In questo libro, il militare serbo che difese Sarajevo, che ha “adottato” un nipote musulmano (foto di copertina) e ha fondato la più grande associazione nazionale per aiutare gli orfani di guerra, racconta le bombe, le tribolazioni dei civili, i doppi giochi dei politici bosniaci e della comunità internazionale, la miseria e il desiderio di una pace che in Bosnia non è ancora davvero arrivata.


«Che vuoi che ti dica, compagno Divjak. L’unica cosa che ci resta è l’amore per questa straordinaria terra e per questa città unica al mondo che tu hai difeso con onore e che continui a onorare occupandoti degli orfani di guerra. Posso dirti che ti ringrazio per quello che hai fatto e che fai, ignorando i briganti oggi al potere. Dirti che amo ancora quel luogo come se l’avessi lasciato ieri. Ci torno, e il tempo è come se non fosse passato. Per me è tutto come allora, quando vidi Sarajevo la prima volta sotto la Luna, sotto le ultime nevi dell’Igman»(dall’introduzione di Paolo Rumiz).

Sarajevo, mon amour vi farà commuovere e vi affascinerà, come solo i grandi libri sanno fare.

mercoledì 8 dicembre 2010

8 dicembre 1980 - 8 dicembre 2010