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lunedì 18 luglio 2011

Uja di Ciamarella 3676 m, per la cresta Est dal vallone di Sea





Ci sono quelle salite che prima ti affascinano, poi sogni, poi insegui ed alla fine realizzi. 15 anni fa cominciavo a camminare per i sentieri delle mie valli, e rimasi subito affascinato dalla cresta est della Ciamarella, la più alta vetta delle valli di Lanzo, coi suoi 3676 m, e sognai che forse un giorno avrei salito quella cresta.
 
Salii l’Uja nel settembre 1998 per la via normale, in una splendida giornata di forte vento gelido. Poi passarono gli anni, ed un po’ di esperienza in più ha cominciato a spingermi a sognare seriamente quella salita.. lo scorso anno eravamo pronti per farla, ma il caldo atroce di inizio luglio ci fece desistere. Quest’anno l’abbiamo presa “per la coda”, fidandoci ciecamente delle previsioni e della finestra di bel tempo prevista per la domenica mattina.
 
Siamo solo in due, io e l’amico Beppe, a partire da Forno Alpi Graie 1219 m, imboccando la stradina ed il sentiero per il Vallone di Sea. E’ qualche anno che non torno qui, ma è sempre magico, ed ora ci sono cartelli e segnali che ricordano la storia alpinistica del vallone. Il Nuovo Mattino è nato tra qui e la contigua valle dell’Orco. Gli spiriti di Grassi e Motti ci osservano ancora da queste pareti.
 
Su un masso, detto “il libro” c’è la firma di Gian Carlo Grassi e di altri alpinisti che hanno aperto vie sulle lisce pareti di Sea.
 
Percorriamo tutto il vallone, il clima è assai afoso, e la fatica si fa sentire. Superiamo il Gias Balma Massiet, e poi l’Alpe di Sea. Il ginocchio mi da assai fastidio, non ha ancora smaltito la Levanna Orientale della domenica precedente. Piccola sosta, poi saliamo al Piano di Sea, solitario e poetico. Non c’è nessuno in giro. Oltre il piano non salgo da dieci anni.. si sale ripidi sulle “scale di Napoleone”, questo ultimo tratto ci spezza le gambe, arriviamo al bivacco Soardi-Fassero un po’ stanchi, ma abbiamo evitato la temuta pioggia. Siamo in parte avvolti dalla nebbia, ma dentro al ricovero si sta benissimo.
 
Tempo di cambiarci e riprenderci, e ci prepariamo una bella polentina concia per pranzo, poi, visto che domani ci dovremo alzare prestissimo, ne approfittiamo per un paio di ore di sonno, nella pace di quassù.
 
Le “speranze” di Beppe vengono esaudite, e veniamo svegliati dall’arrivo di due fanciulle (!!!). Sono due escursioniste, ci faranno compagnia al bivacco. Viene presto ora di cena, diamo fondo a buona parte delle provviste. Nel mentre fuori si incupisce, si mette a piovere. Dopo cena arriva dalla Francia un furioso temporale, che scarica un bel po’ di acqua, grandine e fulmini che rimbombano per tutta la montagna. E’ sempre bello godersi un temporale in montagna al riparo come questa sera…Dura un bel po’, poi si allontana martoriando la valle e sfociando in pianura.
 
Qui l’aria si fa più limpida, il profilo dell’Uja di Mondrone fa da cornice ai continui lampi e fulmini verso est. Viene ora di ritirarsi in branda, domani ci si alza alle 3.  La notte scorre tranquilla, dormo bene, e quando mi sveglio sono abbastanza riposato.
 
Esco fuori, è stellatissimo, ottimo. Facciamo colazione in silenzio, poi, alle 3.45 lasciamo il bivacco. Il sentiero non è evidente, ci sono pochi ometti, ed alla sola luce delle frontali facciamo un po’ fatica a tenere la traccia giusta. Perdiamo una ventina di minuti ravanando al buio, e sono consapevole che è bene non sbagliare traccia, perché qui siamo su delle balze rocciose. L’erba è bagnata ed una scivolata potrebbe essere fatale. In ogni caso, con pazienza ed intuito riusciamo a trovare e mantenere il sentiero. Percorriamo tutto il vallone, lasciano a sinistra il caratteristico masso erratico (ottimo punto di riferimento), poi siamo sul primo nevaio, a quota 2400. Lo superiamo direttamente, poi la traccia prosegue su terreno morenico mentre la Stura di Sea fa un rumore impressionante a pochi metri.
 
Il secondo, grande nevaio, lo superiamo sulla destra, per una ripida rampa di terriccio cedevole e detriti. Un passo avanti e due indietro, usciamo allo sbocco del vallone glaciale abbastanza stanchi. E qui rimango sorpreso. La fronte del ghiacciaio di Sea non è più qui, e non si vede nemmeno dove possa essere. Ma quello che mi impressiona è il ritiro della seraccata del ghiacciaio Tonini. Me la ricordavo rigogliosa, possente, scendere con una cascata di seracchi sul sottostante ghiacciaio di Sea. Ora al suo posto c’è una parete di rocce lisce, e i seracchi sono in alto, sospesi su di essa. E’ incredibile come sia cambiata la montagna negli ultimi dieci anni.. sigh.
 
Nel frattempo schiarisce, spegniamo le frontali. Aggiriamo una fascia di rocce montonate, ed è chiaro il percorso che dovremo fare, nel valloncello detritico e nevoso che ci porterà al ghiacciaio dell’Albaron di Sea. Sembra ben innevato (per fortuna, altrimenti sarebbe una distesa di pietre immonde), e quindi mettiamo i ramponi.
 
C’è un discreto rigelo, ma non sempre sufficiente a tenere il nostro peso, per cui la marcia comincia ad essere faticosa. E sarà solo l’inizio…Ci alterniamo a battere la traccia, studiando la via migliore tra i vari raccordi di neve. Lasciata alla nostra sinistra la gobba detritica quotata 2980 m, siamo quasi al bordo del ghiacciaio dell’Albaron. Per un altro nevaio, con un ultimo tratto ripido e ricoperto di grandine gelata, usciamo sulla calotta superiore del ghiacciaio, al sole. L’ambiente è solitario e grandioso, immenso, e ci siamo solo noi. La marcia è sempre più faticosa, quando la neve sembra tenere, sfonda.. lo strato di grandine del temporale di ieri sera è rigelato, ma non ha permesso un buon rigelo della neve sottostante. Ci portiamo sulla calotta dell’Albaron di Sea, e puntiamo alla “clessidra”, il canalino nevoso che raccorda il ghiacciaio con il “pan di zucchero” e la parte finale della cresta est della Ciamarella.
 
In realtà la “clessidra” non è più nevosa come una settimana fa, ed è impraticabile. Saliamo per il pendio di neve sempre più ripido (40°), sprofondando ad ogni passo, fino alla fascia rocciosa. Superiamo questa sulla destra, per sfasciumi faticosi ed instabili, ma abbastanza agevoli, fino ad uscire alla base del “pan di zucchero” , il caratteristico pendio di neve e ghiaccio a 40-45° che culmina sull’anticima della nostra montagna.
 
Ci leghiamo, e passo avanti io per far riposare il socio. La musica non cambia, questa neve balorda sfonda quasi ad ogni passo, e questi 150 m sono estenuanti. Salgo per la massima pendenza fino a quando non trovo ghiaccio vivo sotto lo strato di grandine e mi sposto a sinistra, andando in traverso ascendente fin quando la pendenza diminuisce. Quasi alla sommità sono esausto anche per il male al ginocchio, e ci ricambiamo al comando della cordata.
 
A Beppe l’onore di fare gli ultimi metri ed uscire sulla cima del “pan di zucchero”. Di fronte a noi la parte finale della cresta, bellissima. Pochi metri di cresta nevosa e siamo sull’anticima della Ciamarella, quota 3637 m. Si scende leggermente, e poi c’è una fascia di roccette esposte da superare. Alla nostra sinistra 1800 m più in basso c’è il Pian della Mussa, alla destra il pendio nevoso si inabissa sulla parete nord. Il passaggio è meno ostico del previsto. Con un’assicurazione “volante” su uno spuntone Beppe supera il passaggino, poi è il mio turno, traversino con i piedi sulla neve sull’orlo della nord, ma per le mani ci sono belle fessure per tirarsi su, ed in breve siamo fuori.
 
Ora, di fronte a noi, l’ultima parte di cresta, la più bella, sinuosa ed elegante, a fil di cielo. E’ quella che sognavo di percorrere da anni, ed infatti mentre salgo mi vien la pelle d’oca dall’emozione. La neve qui è bella portante, ma bisogna guardare bene dove si mettono i piedi, visto che il fianco destro precipita lungo la parete nord. Non ci sono cornici sul lato sud, e questo rende meno complicate le cose. Siamo stanchi ma felici quando raggiungiamo il punto in cui la cresta est si fonde con la via normale. Ormai la vetta è lì. Pochi metri e ci siamo, siamo arrivati. Dopo 13 anni sono di nuovo quassù, ma salendo per la via più bella che c’è a questa montagna. Ci stringiamo la mano, è stata faticosa, ma ce l’abbiamo fatta.  Le condizioni della neve ci hanno fatto impiegare più tempo del previsto, 5 ore e mezza dal bivacco. Ci concediamo una pausa di 40 minuti in vetta, anche se intorno a noi stanno montando le classiche nebbie delle valli di Lanzo. Scrivo ad una persona laggiù, che aspetta mie notizie, giusto un pensiero per chi, in ogni caso, è come se fosse salito quassù insieme a me.
 
Il panorama è un po’ limitato dalle nebbie, ma comunque bellissimo, ed a perdita d’occhio. Poi decidiamo che è meglio scendere, anche perché le cordate che avevamo visto in salita sul ghiacciaio della normale erano molto lontane ancora. La nebbia però ci gioca un brutto scherzo, la nevicata di ieri sera dopo la grandine fa il resto, avendo livellato completamente le tracce. Pensando di scendere la via normale, facciamo un errore seguendo un canale nevoso, assai ripido, che si raccorda più in basso con il “traversone” della normale. Non è difficile, ma le condizioni della neve e la stanchezza impongono una discesa faccia a monte che ci impegna un po’.
 
Scendiamo comunque puntando ad un tipo che sembra in difficoltà, sta effettuando un traverso a velocità ridotta, tornando indietro. Anche le cordate sul ghiacciaio hanno preso la via del ritorno, rinunciando alla vetta. Usciamo sotto le nebbie, e la pendenza diminuisce quando intercettiamo le tracce del tizio, e lo raggiungiamo.
 
E’ un po’ scosso e ci racconta del suo socio che è scivolato, ruzzolando su questo terreno delicato (sfasciumi cementati da grandine, neve e ghiaccio) per un centinaio di metri buoni, fermandosi prima del salto di rocce che piomba sul ghiacciaio. Questo è poi sceso con le sue gambe fino al ghiacciaio, dove è assistito da alcuni istruttori del CAI Saluzzo, quelli della gita sociale che avevamo visto dall’alto. Il suo compagno è un po’ in crisi, e scende con noi, seguendo le nostre orme. Il terreno si fa più facile, ora finalmente riconosco la via normale, ma guardando indietro non si vede niente, il pendio di sfasciumi è un unico pendio nevoso assai ripido. Comunque, in ogni caso, siamo fuori dai casini.

Scendiamo per la buona traccia fino sul ghiacciaio, e poi ci dirigiamo dal ferito, che è già stato bendato dagli altri alpinisti. E’ malconcio, con un braccio fuori uso e pieno di escoriazioni e lividi, ma può ringraziare il Padre Eterno, visto che è caduto rotolando senza casco per più di un centinaio di metri su quel terreno..han già chiamato l’elicottero, ma non si sa se riuscirà a salire, viste le nebbie che vanno e vengono. Se non salirà, dovremo scendere a piedi accompagnando il ferito.
 
Ma poi arriva l’elicottero, fa un primo giro passando alto, poi con una schiarita ritorna, fa un volo radente alla cresta della Ciamarella. Facciamo i segnali di chiamata, ma sparisce sul versante francese.. un attimo di sconforto, ma probabilmente doveva solo studiare la corrente, perché ritorna subito e si dirige verso di noi.
 
Non ero mai stato così vicino ad un elicottero del Soccorso Alpino, e beh, di aria ne fa girare parecchia… l’intervento è rapidissimo, scende il tecnico, aggancia sé stesso ed il ferito al verricello, e l’elicottero si rialza in volo, sparendo oltre le nuvole.
 
Ed ora non ci resta che scendere… il sole va e viene, quando si infila tra le nebbie, c’è da morire di caldo. Appena riparto il ginocchio destro comincia a farmi male.. ed il dolore mi accompagnerà fino al Pian della Mussa. Scendiamo il ghiacciaio, ormai la neve è molle, abbiamo perso parecchio tempo anche in discesa, ma per una buona causa, direi.
 
A quota 3100 finisce il ghiacciaio, ci sleghiamo e togliamo ramponi e piccozza, e lo zaino torna ad essere pesantuccio. La traccia scende sulle morene, io devo fare i passi al rallentatore, perché ho male ogni volta che carico il ginocchio. Lentamente raggiungiamo il Pian Gias, e poi il bivio dove troviamo il resto della gita sociale in attesa di quelli che si sono fermati ad assistere il ferito (che comunque non faceva parte della loro comitiva).
 
Si scende tutti insieme, il paesaggio cambia, le pietre e le ghiaie lasciano spazio ai pascoli ed al verde. In breve (si fa per dire) arriviamo al Gias della Naressa, e quindi sul classico sentiero del Gastaldi, dove ci sorprende la pioggia. Il classico rovescio pomeridiano estivo delle valli di Lanzo.
 
Lascio che la pioggia mi cada addosso, non è fastidiosa e mi rinfresca. La stanchezza si fa sentire, il sentiero è scivoloso, sono dolorante e non posso ancora permettermi di rilassarmi. Ecco il Pian dei Morti, ecco il canale delle Capre, ecco il termine della discesa e Rocca Venoni. Attraverso la Stura ed arrivo anche io al parcheggio di Pian della Mussa, 10 minuti buoni dopo Beppe. La traversata è finita, siamo arrivati.
 
Tra le persone conosciute al pian Gias troviamo un passaggio in auto fino a Ceres, dove abbiamo lasciato un’auto. Scendiamo subito, per poi risalire a Forno Alpi Graie a recuperare la mia, di auto. Il socio deve scappare, quindi niente sosta in piola.. scenderò fino a casa, dove finalmente potrò bermi una birra e mangiare un bel panino caldo, visto che oggi abbiamo saltato pranzo e sono andato avanti solo con qualche pezzettino di grana..
 
Sono stanco, dolorante, ma felice. Ho realizzato un sogno che inseguivo da anni, ora quando guarderò quella cresta dalla pianura la guarderò con uno sguardo diverso, e probabilmente con un filo di emozione. E’ bello quando realizzi dei sogni che hai cullato per così tanto tempo. E’ stato un vero e proprio viaggio, dai 1200 m di Forno Alpi Graie ai quasi 3700 della vetta, partendo dal caldo fondovalle dei boschi, e salendo per il solitario vallone di Sea fino al regno dei ghiacci e delle rocce, fino a quella sinuosa cresta di neve a cavallo del cielo. E poi ancora la lunga discesa sull’altro lato della montagna, ritornando nuovamente ai pascoli del pian della Mussa.
 
Già, un vero e proprio viaggio. Indimenticabile. Nel bene e nel male, emozionante ed indimenticabile, sulle mie montagne, su quelle montagne che mi guardano dall’alto da più di trent’anni.

Le foto sul sito:
http://www.roby4061.it/2005/photobook/2011/ciamarella.htm

martedì 12 luglio 2011

Agonia del ghiacciaio Tonini

Domenica mattina, salendo alla cresta est della Ciamarella, una volta arrivato dove mi ricordavo ci fosse la fronte del Ghiacciaio di Sea, sono rimasto spiazzato.

La neve residua un po' ingannava, ma lì dove c'era la fronte nel 1998, ora non c'era più niente. Non sono riuscito a capire fino dove si è arretrato anche solo dal 2001, dall'ultima volta che ero stato qui.

Ma, nonostante la luce ancora bassa (erano le 5) e il sonno, non riuscivo a riconoscere la seraccata del ghiacciaio Tonini. La più bella, turgida ed in salute delle valli di Lanzo. Ho delle foto del 1998 che lo mostrano rigoglioso, con la cascata di seracchi che scende sul ghiacciaio di Sea.

Ieri sera, spinto dalla curiosità, vado a rovistare tra le mie vecchie foto di montagna. E ne trovo una che mi provoca un groppo in gola. Scattata nello stesso punto (anzi, qui si vede anche la fronte del ghiacciaio di Sea), mostra una seraccata del Tonini che scendeva ancora bella possente.

Il confronto è impietoso e drammatico.



E' incredibile, tragico ed assurdo come in poco più di dieci anni stiano cambiando le montagne. I ghiacciai se ne stanno andando a velocità impressionante.

E magari c'è ancora chi dice che il riscaldamento globale, l'aumento termico e il ritiro dei ghiacciai sono delle balle.

Possiamo discutere sulle cause, uomo o non uomo. Ma questa foto dimostra, senza ombra di dubbio, come sulle alpi si stia consumando un disastro a velocità impressionante.

I nostri ghiacciai stanno morendo. Da quando ho cominciato ad andare in montagna, la situazione in alta montagna peggiora di anno in anno.

E non credo che nei prossimi anni possa migliorare....

domenica 10 luglio 2011

15 anni fa un diciottenne magrolino muoveva i suoi primi passi in montagna nelle valli di Lanzo.. e rimase affascinato dalla Ciamarella, e dalla sua nevosa cresta est.

Sognava, un giorno, di salire quella cresta. Oggi quel sogno si è avverato.




"tra il cielo e la terra"

Uia di Ciamarella 3676 m, cresta est

mercoledì 6 luglio 2011

"L'alpinista è un uomo che conduce il proprio corpo là dove un giorno i suoi occhi hanno guardato.
E che ritorna."


Gaston Rèbuffat

venerdì 1 luglio 2011

30° anniversario dell'uccisione di Padre Tullio Maruzzo


Mio zio non l'ho mai conosciuto, essendo stato ucciso nel 1981.... ma da quanto ho letto e mi è stato raccontato da papà e dagli zii, mi sarebbe piaciuto, doveva essere una persona straordinaria.

riporto qui la storia (un po' lunga..) tratta dal sito dei Frati Francescani Minori del veneto.






Il 23 luglio 1929, in una famiglia di poveri contadini di Lapio (Arcugnano, Vicenza), nascevano due gemelli: Marcello e Daniele, figli di Angelo Maruzzo e di Augusta Rappo.
Marcello frequentò la scuola elementare del suo paese dove ebbe i primi segni della sua vocazione francescana. Il 9 ottobre, assieme al fratello gemello Daniele, entrò nel collegio serafico di Chiampo. Dopo aver finito il ginnasio, vestì il saio francescano dando così inizio all’anno di noviziato, nell’isola di S. Francesco del Deserto (Burano, Venezia) il 16 agosto 1945; Marcello prese il nome di Tullio e suo fratello gemello quello di Lucio. Il 17 agosto 1946 emetteva la prima professione dei voti di povertà, obbedienza e castità. Proseguì poi i suoi studi di liceo e di teologia. Il 15 luglio 1951, nel santuario di S. Antonio in Gemona del Friuli, emise la professione solenne e il 21 giugno 1953 fu ordinato sacerdote dal cardinale patriarca di Venezia, il B. Angelo Roncalli (poi Giovanni XXIII) nella basilica della Madonna della Salute.
Dopo l’ordinazione sacerdotale fu destinato come assistente nell’orfanotrofio di S. Nicolò del Lido in Venezia, vi rimase per sette anni, stimato da tutti per la sua mitezza e pazienza.







Il fratello gemello p. Lucio, subito dopo l’ordinazione sacerdotale, era partito come missionario francescano in Guatemala (Centro America). P. Tullio maturò la sua vocazione missionaria e decise di chiedere i permessi ai suoi superiori per partire anche lui. Il 16 dicembre 1960 prese l’aereo e fu destinato quasi subito dopo il suo arrivo alla parrocchia di Cristo Re, in Puerto Barrios, capoluogo del departamento (parola utilizzata in quella zona per denominare una provincia civile) d’Izabal, Terra di emigrazione che bisognava strappare la terra da coltivare alla foresta tropicale, bisognava impiantare tutto per sviluppare una chiesa nascente formata da gente che proveniva dai diversi punti della repubblica centroamericana. Fu cappellano della grande parrocchia centrale, incaricato della catechesi nelle scuole pubbliche e dell’assistenza agli ammalati nell’ospedale. In questa parrocchia ebbe il suo primo incontro con i Cursillos de Cristiandad, ai quali rimase legato fino alla morte. Il 26 gennaio 1963 s’istituì la parrocchia di Fatima in Entrarios-Abacà, p. Tullio fu nominato primo parroco. La popolazione affaticava ad amalgamarsi, più ancora: l’assenza quasi assoluta del potere dello Stato portava a risolvere le questioni sorte tra le persone e le famiglie per conto proprio ricorrendo facilmente alla violenza; la vendetta, l’omicidio, il furto e la disgregazione dei nuclei familiari erano frequenti. Per guadagnarsi il pane quotidiano p. Tullio organizzò un piccolo e rudimentale cinema parrocchiale. Il 28 febbraio 1968 venne istituita la nuova parrocchia di S. Giuseppe in Morales e affidata a p. Tullio. Si dovette partire dal nulla, costruire la casa parrocchiale, la chiesa e un centro per la formazione dei catechisti. La parrocchia era molto più vasta di quella di Entrerios-Abacà; il nuovo amministratore apostolico, mons. Gerardo Flores, puntò sulla formazione dei catechisti denominati in quella zona Delegados de la Palabra. P. Tullio si dedicò in pieno in questo lavoro pastorale coadiuvato da quattro suore canadesi. Negli anni sessanta e settanta la zona d’Izabal era poco popolata, dominata da foresta tropicale; fece nascere la cupidigia di non poche persone in cerca di terra d’appropriarsi. La legge dello Stato diceva che se un terreno senza proprietario veniva occupato da una persona, dopo 12 anni ininterrotti, la proprietà passava all’occupante. La maggior parte dei contadini emigranti erano analfabeti che non conoscevano né le leggi né i loro diritti. La parrocchia di Morales, esposta a continue emigrazioni, vedeva con facilità sorgevano nuovi villaggi , piccoli, sparsi in mezzo alla foresta, molto distanti uno dall’altro. P. Tullio visitava tutti i villaggi una, due, e anche tre volte all’anno, usando mezzi di fortuna: a piedi, a cavallo soprattutto, qualche volta anche la barca. Pochi erano raggiungibili con il mezzo motorizzato. Bisognava preparare un buon gruppo di catechisti per ogni villaggio, capaci di lavorassero insieme, per questo occorreva organizzare corsi di alfabetizzazione, di formazione umana e religiosa, che permettesse ai catechisti migliorare la loro povertà e insegnare agli altri nelle loro comunità.


La situazione


Persone senza scrupoli, specie ligie all’esercito e al governo di turno, misero gli occhi sulle terre già bonificate ma che gli occupanti non si erano preoccupati affatto della legalizzazione della loro proprietà; si facevano dare i documenti dal governo centrale presentandosi ai contadini come i legittimi proprietari di quelle terre obbligandoli a una scelta: partire alla ricerca di nuove terre oppure passare alla loro dipendenza. In caso di opposizione o di rifiuto si faceva intervenire l’esercito per l’attuazione del decreto. Durante la visita ai villaggi, p. Tullio portava ai contadini i beni che la Caritas gli concedeva affidandoli ai catechisti per la distribuzione. P. Tullio si guadagnò subito la stima e la simpatia della povera gente del luogo a causa della sua premura apostolica, il carattere mite e pronto all’accoglienza, lo spirito di sacrificio e la carità. Puerto Barrios è l’unico porto sul mare dei Caraibi della repubblica di Guatemala, unito alla città omonima della capitale da una strada asfaltata e da una ferrovia. I gruppi dell’estrema sinistra si organizzarono in guerriglia in quelle zone, rifugiandosi nelle montagne e svolgendo azioni di disturbo al traffico di quelle uniche vie di comunicazione con il porto; buona parte del commercio con gli Stati Uniti e con l’Europa passava per Puerto Barrios. Il governo rispose organizzando i gruppi paramilitari detti comisionados, formato da ex militari che spesso risultavano essere persone senza scrupoli. Molti di questi vollero approfittare della loro posizione per appropriarsi indebitamente delle terre già bonificate che, in caso di rifiuto da parte del contadino, veniva accusato di “comunismo”, e quindi ucciso (Per attuare le loro decisioni i Comisionados si organizzavano in squadroni della morte).




Le cause del martirio



 

P. Tullio sapeva molto bene che non era possibile affrontare quelle persone, bisognava trovare una via efficace per difendere i contadini: istruirli sui loro diritti e suggerire loro di organizzarsi per procedere alla legalizzazione del possesso delle loro terre; a questo scopo fece intervenire la Caritas che prestasse i suoi servizi con avvocati di fiducia. La cosa non piacque ai paramilitari che iniziarono a prendere di mira l’attività apostolica di p. Tullio; ricorsero alle minacce, alle calunnie e ad ostacolare l’attività del centro formativo per i catechisti. Si diceva che p. Tullio aveva buoni rapporti con i guerriglieri, che forniva loro generi alimentari e medicinali, ma in realtà erano quelli che la Caritas affidava a lui per distribuirli ai contadini durante le sue visite ai villaggi; si disse perfino che era “comunista” e “guerrigliero”. P. Tullio non prese neppure minimamente in considerazione le accuse calunniose. I paramilitari arrivarono ad organizzare un attentato contro la parrocchia, fecero esplodere una bomba intimidatoria davanti alla canonica e un’altra davanti al centro catechistico curato dalle suore canadesi. I superiori pensarono a cambiarlo di parrocchia. P. Tullio fu trasferito a Quiriguà, una località a 50 km di distanza da Morales, sempre in Izabal. Le minacce lo raggiunsero anche là. Questa parrocchia era più vasta di Morales perciò godeva della compagnia di un altro sacerdote anche se anziano: p. Paolino Cristofari ofm, già sua assistente quando era fratino a Chiampo. Due fatti fecero “traboccare il vaso”. In un villaggio si reclutavano i giovani per il servizio militare. Il sistema utilizzato era che i soldati dell’esercito arrivati improvvisamente nella località, correvano dietro a un giovane trovato nella via pubblica fino a prenderlo e legarlo, obbligando il mal capitato così al servizio militare. Secondo la legge dello Stato non si poteva prelevare una persona dall’interno di una casa, ma un soldato era entrato dentro di un’abitazione per prelevare un giovane che si era rifugiato, provocando la reazione dei catechisti e di altre persone che facevano presente l’illegalità dell’azione. Chi aveva istruito i contadini sui loro diritti a modo di ostacolare l’azione dell’esercito? Il rapporto dell’ufficiale dell’esercito che guidava la spedizione in quel villaggio non fu per niente tenero contro il parroco e il centro di formazione dei catechisti; in Quiriguà il centro era curato da suore nordamericane. Il secondo fatto fu un’azione di esproprio: 60 famiglie erano spogliate di tutto. P. Tullio, p. Paolino e i capifamiglia scrissero una lettera rispettosa al Presidente della repubblica, chiedendo il suo interessamento per risolvere in forma giusta la situazione. Non pochi dei contadini firmatari avevano messo la croce perché analfabeti. Questi due fatti fecero sì che le alte autorità militari prendessero la decisione di uccidere p. Tullio, considerato un elemento scomodo per i loro interessi personali.


 


Il martirio



 

Dopo una faticosa giornata trascorsa tra i villaggi delle montagne, il 1° di luglio 1981, dopo aver cenato di corsa, p. Tullio si recò all’ultreya (parola utilizzata dai membri dei Cursillos di Cristiandad per denominare le loro riunioni settimanali)di Los Amates ; finita la riunione decise di accompagnare due cursillistas a la loro casa, distante una diecina di chilometri dal centro, erano passate le 9:00 di sera. Luis Obdulio Arroyo era un giovane terziario francescano, cursillista e catechista che non si separava dal padre, in questo caso aveva deciso di fare l’autista del mezzo utilizzato. Di ritorno, superati due chilometri dalle rovine dei Mayas che dà il nome alla località, i paramilitari avevano preparato un’imboscata: dopo aver fermato il mezzo, fecero scendere p. Tullio e Luis Obdulio e li crivellarono sul posto. P. Tullio e il suo catechista, per essere fedeli al loro ministero apostolico sacerdotale e alla dottrina sociale della Chiesa, cadevano vittime dell’ingiustizia e per difendere i poveri contadini. P. Tullio venne subito riconosciuto dai suoi parrocchiani come ‘martire’ e ‘santo’ e tale è venerato dalla gente fino ad oggi. Il ricordo e la preghiera è sommessa, dato il pericolo rappresentato dagli assassini ancora liberi e protetti dalle autorità militari.